L'articolo che segue è tratto da Idea diffusa, l'inserto sul Lavoro 4.0. Il nuovo numero – che si apre con un'intervista al segretario generale della Cgil Susanna Camusso – è interamente dedicato al Forum nazionale dell’industria, del lavoro e dell’innovazione organizzato dalla confederazione lo scorso 21 settembre a Torino e al successivo appuntamento del G7. Si può scaricare qui.

Quali sono oggi le direttrici strutturali sulle quali oggi è prioritario un impegno per assicurare un futuro al sistema industriale italiano? La prima lungo la quale operare riguarda il consolidamento ulteriore della posizione competitiva delle imprese migliori di cui disponiamo. Mi riferisco in primo luogo alle imprese di dimensioni intermedie (cioè più grandi delle medie in senso stretto, senza essere delle grandi imprese nell'accezione corrente dell'espressione) che racchiudono il nucleo di quello che, sulla scia dello studioso americano dell’imprenditorialità William J. Baumol, potremmo definire il “capitalismo imprenditoriale”, orientato a una dinamica innovativa.

Ma nel novero rientrano di sicuro anche parecchie delle medie imprese propriamente dette, che hanno rappresentato il segmento più vitale del sistema imprenditoriale. Nel loro complesso, queste organizzazioni d'impresa svolgono una funzione estremamente delicata e sofisticata nella strutturazione di filiere, coinvolgendo così nelle loro operazioni uno sciame di aziende minori, che vengono rese partecipi di approcci e modelli dai quali sicuramente non sarebbero toccate ove agissero isolatamente.

La realtà delle filiere è tale da configurare aggregazioni d'impresa dotate di un potenziale superiore a quello delle singole unità che le costituiscono. La loro integrazione genera quindi una capacità operativa aumentata. Ciò si rivela una chance importante anche nella prospettiva di Industria 4.0, nel senso che l'impresa capofila assolve a un compito importante nell'azione di spingere le imprese fornitrici e sussidiarie ad adottare tecnologie per le quali altrimenti troverebbero una più difficile soglia d'accesso. Del resto, le imprese minori non avrebbero adito sovente ai mercati internazionali, ove non lavorassero in sintonia con un'impresa maggiore già internazionalizzata.

Sembra perciò venuto il momento di pensare a una possibile politica industriale “dal basso”, volta a valorizzare le filiere e a creare per esse condizioni di vantaggio, fino a configurare modelli di relazione più strutturati ed efficaci fra le imprese che le compongono. Sono molteplici i versanti che si potrebbero chiamare in causa in questa logica. Il primo, come si è accennato, è indubbiamente quello del trasferimento tecnologico. Occorrono strumenti per favorirne la diffusione all'interno delle filiere, cercando il sostegno e l'apporto di centri di specializzazione tecnologica di matrice universitaria. Correlata al trasferimento tecnologico è la questione dell'investimento nel capitale umano, cioè nelle competenze dei lavoratori e nella qualità del lavoro.

Un terreno, questo, dove occorre incentivare la partecipazione sindacale, anche nel senso dello sviluppo di esperienze contrattuali che si misurino direttamente con le relazioni di filiera. Il tema del credito e, ancor più, del potenziamento del capitale di rischio delle imprese dovrebbe essere affrontato mettendo a punto strumenti di natura legislativa che facilitino il rafforzamento dei legami di filiera. Ciò potrebbe costituire un contributo originale e non secondario al problema della crescita dimensionale delle imprese.

Gli esempi che ho richiamato hanno come fondamento l'idea che le filiere produttive esercitino una parte importante all'interno del sistema imprenditoriale italiano e, anzi, costituiscano una sorta di fattore peculiare di sviluppo sul quale sarebbe un errore non investire. È chiaro tuttavia che il mio ragionamento potrebbe facilmente essere accusato di essere riduttivo, in quanto muove da una peculiarità italiana ma che di per sé non possiede di certo la forza per trasformare radicalmente l'attuale assetto produttivo, invertendone la rotta. Ed è altrettanto evidente che resta il problema di salvaguardare i nuclei sopravvissuti della grande impresa italiana, soprattutto pubblica, ponendola nella condizione di operare meglio di quanto ha fatto nel passato, anche grazie a una rete più estesa di alleanze internazionali.

Tuttavia, rimango persuaso che, in ogni analisi di prospettiva dell'industria italiana, occorra partire dai suoi punti di forza effettivi, per fare in modo che essi liberino tutto il loro potenziale. Allo stesso modo, non voglio celare il fatto che quanto è andato disperso ben difficilmente potrà essere ricostituito. Ecco perché, in ultima analisi, è prioritario assumere un punto di vista ispirato al realismo sulla situazione dell'industria italiana. L'Italia, così com'è oggi, ha soprattutto bisogno di mantenere i contatti con la dinamica dello sviluppo mondiale, guidato da forze che non ha certo il potere di influenzare.

Giuseppe Berta è professore di Storia all'Università Bocconi