Le tre del mattino è l’ora del sonno profondo, quella dei sensi distesi, del mondo che dorme. Di quelle ore invisibili, dove tutto si ferma, racconta in un incipit vertiginoso il nostro scrittore più massimalista di fine novecento, Paolo Volponi, in un libro di recente ristampato, credo riportato in libreria dalle ustioni e urgenze dell’Epoca (Le mosche del capitale, a cura di Massimo Raffaeli, Einaudi). Racconta così la nostra notte occidentale quel libro: “Dormono anche gli impianti, i forni, le condutture, dormono i nastri trasportatori delle scale mobili che depositano le pozioni chimiche nelle vasche della verniciatura o nei lavelli delle tempere.

Dorme la stazione ferroviaria, dormono anche le farmacie notturne, le porte e le anticamere del pronto soccorso, dormono le banche: gli sportelli le scrivanie i cassetti le poste pneumatiche le grandi casseforti i locali blindati; dormono l’oro l’argento, i titoli industriali. Dormono i garzoni con le mani sul grembiule (…) e mentre tutti dormono il valore aumenta, si accumula secondo per secondo all’aperto o dentro gli edifici. (…) Ogni cinque minuti scatta il calcolo degli interessi, ogni dieci quello del tasso d’inflazione, ogni mezz’ora, avendo intanto percorso il giro del mondo, l’indice di costo delle principali materie prime, ogni tre ore l’indice del valore del dollaro e del marco svizzero, seguito dopo venti minuti da quello di tutte le altre monete dei principali paesi industriali del mondo”.

Così mentre il danaro prolifera, riproduce i suoi tassi vitali, strozza o ingrassa, sporca o assoggetta, in una fabbrica di Jesi ai confini dell’Impero, quella dove si costruiscono trattori della New Holland del Gruppo Fiat, duecentocinquanta operai e giovani dei centri sociali hanno organizzato una Notte rossa, alternativa militante a quelle più neutre, e bianche, consumistiche della società affluente, per lo sciopero nazionale organizzato lo scorso 28 gennaio dalla Fiom, “Uniti contro la crisi”. Arrivo nella notte ma sono già tutti presenti in una via buia della zona industriale, una toponomastica fatta di cieli plumbei, di cancelli e di scritte illuminate che riverberano, con le solite rotonde, i rettilinei infiniti, cartelli un po’ surreali che sviano, dove perdi a volte il senso dell’orientamento, e le strade sembrano tutte uguali a percorrerle al buio, una cartina che racconta uno spazio privo di cose vitali, utilizzato al massimo del rendimento fisico.

Un posto spopolato, dove anche gli alberi, il poco verde, sono solo un ornamento lugubre, spettrale, di quei non luoghi tipici delle periferie di un mondo nuovo. Pensare che qui di centri storici una volta identitari, belli da morire, c’è l’imbarazzo della scelta. Basta fare pochi chilometri e trovi un borgo ritenuto “città esemplare” dall’Unesco, dove nacquero l’imperatore Federico II e il grande compositore Giovan Battista Pergolesi, città dei castelli, con una invidiabile cinta muraria e palazzi nobiliari. Cerco subito Giuseppe Ciarrocchi, il segretario regionale della Fiom, una vita operaio nella nobile Farfisa, e oggi a capo dei metalmeccanici. Sta parlando con i suoi compagni, operai che qui spendono un pezzo della propria vita per tutto il corso dell’anno. Sono quasi tutti giovani, molte le ragazze, con figli a carico, i mutui da pagare, la vita incerta. È una classe operaia nuova, però non s’è interrotto, nonostante tutto, quel collante di memoria che i sindacalisti conoscono, e cioè un tramandare nel tempo conoscenze, competenze e anche ragioni politiche.

Me lo conferma Giampiero Pelagalli della Cgil regionale, una mia vecchia conoscenza. Adesso è qui, ma ultimamente si occupa del settore del commercio, dove la sindacalizzazione è scarsa. Ma la motivazione per lui è ancora più forte. “Devi lavorare di più, devi creare nuove consapevolezze, formare nuovi compagni, è una bella sfida”. Al centro della strada un gazebo con le bandiere, di lato un fuoco che arde in un braciere, dietro il barbecue con la carbonella. Stanno arrostendo carne alla brace, la notte sarà lunga. Davanti ai cancelli gli striscioni e un cartello: l’immagine ritrae Bonanni e Angeletti, sotto c’è il titolo perfetto, “Le mosche del capitale”. Un titolo dove ritorna il romanzo quanto mai attuale di Paolo Volponi, marchigiano di Urbino, a un tiro di schioppo da qui. Di quest’epoca odiosa “dopo Cristo”, così come l’ha definita un “geniale” pensatore della qualità globale (ha sostituito solo come vezzo il maglione agli orologi allacciati sui polsini, ma la razza è la stessa), aveva sentenziato malinconico: “Il racconto è finito. La narrazione, se vuole, è il bancone del supermercato. Lei non potrà mai raccontare niente di me!”.

Lui l’aveva conosciuto il mondo Fiat, se non altro per averci lavorato, se non altro per essere stato espulso nel 1975 solo perché aveva fatto dichiarazione di voto al Pci. Dal furgoncino con il gruppo elettrogeno la musica allestito dal Csoa Tnt, vanno uno dietro l’altro Jannacci, la Bella ciao dei Modena, Bandiera rossa e compagni bella. Ritrovo Peppone, con la barba bianchissima e folta da patriarca, che non vedo da anni, oggi alla Cgil scuola. Giampiero ci invita entrambi a bere un Rosso Conero denso, molto profumato. Serve a combattere il freddo, che qui si fa sentire. “Questa è una fabbrica di novecentocinquanta operai, noi abbiamo un centinaio di iscritti, ma nelle elezioni delle Rsu siamo il primo sindacato”, dice Ciarrocchi orgoglioso.

Tra poco, alle cinque, smonteranno gli operai del turno di notte, si faranno avanti quelli del successivo. Quando cominciano ad arrivare, con i fagotti dove tengono le merende, stretti nei giacconi, un muro di corpi protegge il cancello dell’entrata. Un ragazzo giovane vuole passare, c’è un sapiente lavoro di spalle per cercare di farlo fermare a discutere. Uno gli dice “Ci vogliono servi, se entri sei un servo anche tu”. Lui risponde che è un interinale, insiste, lo lasciano andare. Subito dopo è il turno di una ragazza giovane. Spaurita avanza titubante, ma sorride. I compagni di lavoro ai picchetti la riconoscono, la chiamano per nome. Uno piuttosto svelto di lingua sui trent’anni le dice: “Vengo dalla Caterpillar, anche io ho i figli come te. Dai, non entrare, oggi è un giorno importante.” La tipa è indecisa, poi alla fine decide: “Va bene, basta, vado via”, e fila verso l’utilitaria.

Segue un applauso, qualcuno la ringrazia. La scena si ripete poco dopo quando si presentano ai cancelli altri tre ragazzi. Uno di loro è più spavaldo, anche più alto e corpulento, cerca di scansare gli operai e di trovare un varco. Il “corpo a corpo” tra compagni di lavoro è drammatico, sento in questo scontro tutto sommato pacifico di arti, muscoli e parole la difficoltà comunque sofferta di una scelta. Salgono le urla di “crumiri!”, un vocabolo che sembrava essere caduto in disuso, prescritto dal pensiero dominante dell’epoca. Poi il tipo alto riesce a entrare in fabbrica, apostrofato dagli insulti potenti dei presenti. Dice Ciarrocchi che non sono entrati più di dieci operai su 350, non riusciranno neanche ad avviare la produzione. Con Peppone giriamo a vuoto per tutto il perimetro di questa periferia industriale, ricordiamo “a braccio” alcuni compagni di tanti anni fa.

Mi racconta di quando lui, Carletto e altri sono andati a Firenze a “prelevare” Pazzì, che aveva scelto di fare il barbone. “Lo abbiamo tolto dalla strada, lo abbiamo portato in un diurno, poi lo abbiamo vestito con abiti nuovi. Dovresti raccontarla questa storia. In poche ore un uomo era passato dalla disperazione alla felicità”. Sono quasi le sei, fa molto freddo, mi invitano a leggere. Prima di me parla una giovane rappresentante della Fiom, dice a tutti che è molto contenta, lo sciopero è riuscito, “è stata una giornata epica”, ripete commossa, proprio così. Penso che se c’è davvero ancora qualcosa di epico, è questa irriducibile classe operaia italiana.

Così mi viene in mente di leggere le poesie di un poeta metalmeccanico nato a Fermo, nella mia città, emigrato a Oslo negli anni 50, Luigi Di Ruscio, ho un suo libro nello zainetto. Leggo al buio, illuminato da un faretto debole, mentre tutti gli operai si sono raccolti in silenzio. È un testo sulla fabbrica, tratto da un libro molto importante (Poesie operaie, Ediesse) dove lui si descrive: “Inizia il giro delle ore sulla trafilatrice/che mi aspetta con la bocca spalancata/inizia la mia danza il mio spettacolo”. Poi ne leggo un’altra molto conosciuta, di rara forza espressiva, una specie di manifesto della condizione operaia universale: “Chiudere un porco vero nel reparto/non un porco normale/un porco insomma, un maiale insomma/chiuderlo nel reparto per otto ore/vediamo come reagisce l’associazione protezione animali/vediamo come reagisce a questa estrema crudeltà il maiale/schianta strozza impazzisce s’indemonia”.

Seguono gli applausi. Se li merita tutti. Alle otto è già tutto chiaro, comincio a scorgere gli immediati dintorni. La grande fabbrica adesso è più visibile, silenziosa e spettrale. Questa è l’ora comoda degli impiegati. Quando cominciano ad arrivare ti rendi conto subito che hanno un’antropologia di gesti e di vestiario diversissima. Capelli brizzolati ben pettinati, paltò scuri eleganti, borse in cuoio o zainetti griffati. Gli operai li bloccano. “Oggi non si entra.” Allora gli zelanti impiegati fanno dietrofront, sembrano andarsene verso le auto. Invece costeggiano la cancellata e vanno a passi rapidi sul retro, dove c’è un altro ingresso. Li seguo. Quando arrivano a destinazione stessa scena, gli operai serrano le fila, li bloccano. Intervengono presto i carabinieri, poi anche i poliziotti, vola qualche urlo, due strattoni in tutto, e alla fine questi signori e signore cinquantenni entrano, anche se le loro orecchie debbono sentirne di tutte i colori: “Servi!!...Bastardi!!...tanto la globalizzazione non risparmierà neanche voi!!”.

Un ragazzo piuttosto agitato dice: “Non bisogna berci neanche più il caffè alle macchinette con quegli schifosi”. Sono piccole mosche anche loro, somigliano ai “manager industriali di successo (…) le sapienti colorate voraci mosche del capitale, sì le mosche … per di più svolazzano e ronzano dappertutto, in bell’inglese, per andare a succhiare e a sporcare”, come scriveva sempre Volponi. Il giorno dopo ho scritto a Luigi Di Ruscio, che vive a Oslo. Gli ho raccontato questa cosa, come spesso accade quando leggo le sue poesie o scrivo di lui. Non sta troppo bene, ultimamente, è uscito da poco dall’ospedale, ma sembra contento. Risponde subito, con lo spirito bambino di un ottantenne ancora capace di stupirsi: Caro Angelo, grazie, veramente grazie, una piccola prova della persistenza della mia poesia, tante volte ho il sospetto che tutto quello che ho scritto non vale niente. Invece la mia poesia viene adoperata in una situazione giusta, un forte abbraccio, Luigi Nessuno poteva immaginare quella notte che dai ghiacci freddi della Scandinavia, da Oslo, arrivasse ancora potente la sua voce.