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Come quando Nixon diceva che i ragazzi sono violenti a causa di Charles Manson. Comunque qui chiama gente in continuazione e il dettaglio è che c’è una puzza infinita. Deve essere per come il riscaldamento spreme la polvere. Alziamo la cornetta e per alcuni minuti ci sentiamo artefici di una specie di selezione innaturale. Dal punto in cui mi trovo parte un corridoio lungo qualche metro, ognuno ha la sua scrivania e ognuno dà le spalle all’altro, nessuno si guarda in faccia.
Senti solo le voci e la voce che ripete la solita frase: “Immagino che lei sia a pezzi”. Questa è la sede di un nero telefono azzurro, un servizio di assistenza per chi ha perso il lavoro, è pieno di cavi recisi e lampadine bruciate, in sintonia con chi sta dall’altra parte. La prima cosa che ti dicono è che vogliono farla finita e che hanno il cervello bruciato. Quelli che mi danno ai nervi sono i disoccupati che minacciano di darsi fuoco, e te lo dicono lì, al telefono, ti spiegano dove lo faranno e in genere sono sempre bordi di strade, a pochi metri dalla fabbrica che li ha liquidati. Il fatto è che il romanticismo non aiuta nessuno, a meno che tu non sia la giovane figlia di un pastore anglicano nata nello Hampshire. Ma se non sei Jane Austen, meglio evitare questo tipo di sfida. La nostra onlus si chiama Telefono Occupato, sì lo so che è un controsenso, ma avete mai dato un’occhiata alla serie dei telefoni assistenziali? I colori sono tutti prenotati. Telefono bianco, azzurro, giallo. Telefono rosso, viola, arancione, c’è pure il telefono verde, che non è un numero verde, si chiama proprio Telefono Verde, ti fa scoprire attraverso la cornetta il grande amore che Gesù riserva alla sua creatura, cioè tu. È uno spasso. Se prendi la linea e poi clicchi il 9, c’è una rubrica che si intitola Una buona parola per tutti, la consulto ogni giorno. Se sei a corto di parole e il tuo mestiere è parlare con dei disgraziati, non costa niente abbonarsi al fatto che Dio ha creato l’uomo. O viceversa.
Una buona parola per tutti mi regala ogni otto ore una qualche risurrezione, ieri per esempio ho detto a un tizio che l’amore di dio percorre strade umanamente incomprensibili, perché ci vuole trascinare ad essere migliori.
“A me ’sta storia inizia a rompermi i coglioni”, ha detto lui. E io ho capito di aver fatto centro. Ho ottenuto la mia piccola reazione di rabbia che in questi casi è l’unico sentimento buono. Perché i sentimenti sono strani. Hanno sempre qualcosa a che fare con la stanchezza, è come se stessero a fatica dietro alla vita reale, sono votati all’ozio, stanno benissimo nelle case dei poveracci o degli aristocratici. I sentimenti sono inermi, altro che motore del mondo. In ogni caso qui, per quel che facciamo noi, procurare rabbia è l’unico dato che garantisce una reazione.
Se ce la fai, le probabilità di un suicidio calano del 70 per cento e a quel punto potrebbe anche essere che uno scarichi violenza all’esterno, magari sul suo datore di lavoro e questo non è più affare nostro. Si chiama Telefono Occupato perché dà l’illusione di una qualche occupazione, oltre al fatto che non c’erano più colori disponibili. Per chi telefona qui, telefonare al Telefono Occupato non fa venire in mente il fastidioso tu tu tu di una linea perennemente invasa. Fa venire in mente che il termine occupato è il contrario di disoccupazione. Sognano un altro impiego come io sogno di vendere case infestate dagli spiriti. Non mi piace vivere sulla mancanza di lavoro, ma un modo per dimenticare le cose che non ti piacciono lo trovi sempre. Ci sono diverse categorie di utenti, gli ansiosi, gli insonni, i fobici, i depressi reattivi, i disforici e gli adultofobi, noi li chiamiamo così, dei depressi mascherati, i più pericolosi. Faccio più fatica a cancellare gli adultofobi, me li passano sempre, lo fanno perché a forza di dai e dai qui dentro perdi qualsiasi empatia e non gliene frega niente a nessuno se c’è ancora qualcosa che ti fa male. “È lavoro”, dicono. Un po’ come là fuori.
Eccone un altro. “Adultofobo sulla linea 3. È tuo”, la centralinista mi adora. Gli adultofobi non li recuperi quasi mai, la solita inerzia del romanticismo, non fai altro che accompagnarli nel loro mondo prima che procedano a quello di Una buona parola per tutti. Sono calmi, ironici, lievemente malinconici, ma non troppo. Me li immagino sempre in una camera d’albergo, seduti su una poltrona con le scarpe sfilate e i piedi incrociati sul letto. Poi mi danno la mano e io la prendo.
“Ehi quand’è l’ultima volta che sei salito su una giostra a catene?”, dice la voce adultofoba al telefono.
“Sono più di vent’anni”, dico.
“A me non piaceva granché”, dice.
“E che ti piace?”.
“Accompagnare mio figlio alle giostre. C’è tutta questa gente intorno che cammina mano nella mano con queste enormi stecche di zucchero filato rosa”.
“Io detestavo la ruota panoramica”, tento di tagliare le cordate romantiche, “con mia madre che diceva vedrai, ora andiamo sulle stelle, ma quello che vedevo era una salita nel buio e la possibilità di cadere ogni minuto”.
“Che poi io di mestiere lavoravo in uno studio di meccanica applicata, settore sicurezza”, fa lui.
“Sei un bel tipo”, dico, “poi telefoni qui e parli di luna-park, giostre che sfrecciano a folli velocità con la gente in attesa a mezzo metro di distanza, senza nessuna protezione, nemmeno delle banali transenne, per non parlare dello stato di deterioramento di alcuni traini, ruggine dappertutto, roba da paleolitico superiore, magari in mezzo ci trovi pure qualche scheggia lavorata in osso». Lui ride. Dice che di sicuro si vedono in giro giostre in stato di deterioramento tale da avere problemi di sicurezza, allo stesso modo in cui si vedono in giro auto o camion in condizioni pietose, pronti a sfasciarsi contro di te al prossimo incrocio, discoteche con uscite secondarie sbarrate, fabbrichette cinesi nei sottoscala, sappiamo tutti che chi dovrebbe controllare spesso non lo fa, salvo venire a rompere i marroni per un tubo del gas con la verniciatura un po’ scrostata. Poi sterza di nuovo, cambia argomento, suo figlio è un asso in matematica. La ruota riparte e si scende a ritroso.
“Pensa che quando è nato io stavo in ospedale, non l’ho visto per quaranta giorni. Parotite con rischio di infertilità”, dice. Intanto la segretaria sta distribuendo a tutti dei caffè, ne dà uno anche a me, nero e freddo, ma serve per mettersi in linea col rituale di restare svegli e continuare ad ascoltare qualsiasi comunicazione. Il fatto è che con gli adultofobi non ce n’è bisogno, fanno in modo che la loro esperienza diventi la tua esperienza, ti raccontano cose talmente ordinarie che ci sono ottime probabilità che a te sia capitato lo stesso. Ti dicono di quando hanno comprato una tavola da skateboard, a dodici anni, e si sono sfasciati la caviglia. O che la prima volta che gli è mancato il respiro è stato a cinque anni, a causa di un’allergia alle fragole. Loro vanno sul corpo, sarebbero degli ottimi scrittori, ti prendono di pancia, ma quando glielo dici rispondono “Già”, e ritornano al passato, perché è lì che vogliono finire. Rimangono calmi, fermi, distesi, la voce non si allerta. E tu capisci che sono oltre. Oltre al lavoro che hanno perso. Allora attacchi con i corsi di autocontrollo, che sembrano una scemenza e non lo sono, ma sai che stai ripetendo una frase di Una buona parola per tutti, versione yoga. In realtà arrivi al punto che tutto quello che dici pare abbia l’utilità di un orologio fermo. L’adultofobo sa sempre come sollevarti dal compito: “In fondo è gratificante sentire che non esiste più modo in cui possano farti del male”, dice. “Spero di risentirti” ripete. E tu ci credi, abbocchi subito, te ne liberi. Non sai proprio come comunicarglielo che il lavoro in fondo è un extra dell’esistenza.
Ma soprattutto ti ricordi quando a diciotto anni sei stato in Africa in viaggio premio, quando hai chiesto all’africana che volevi scoparti se le piaceva la maglietta che indossavi e lei ti ha risposto: “E perché non dovrebbe piacermi?”. Bella l’Africa. Bellissima. Puoi esistere senza lavorare e comperare, comunque non ci andresti a vivere. Quindi no. Te ne liberi, saluti l’ingegnere di meccanica applicata sperando ti richiami. Al 70 per cento sai che non sarà così. Al 20 per cento speri nelle stelle. Al 10 per cento inizi a difenderti. Ti dici che non sei così idealista da sperare di cambiare il mondo, non lo sei mai stato e uno prima o poi deve capire che forse la vera rivoluzione è solo quella di cambiare sé stesso. In breve: cazzi suoi. Tu puoi solo ascoltare, tentare di comunicare, ma non hai l’alabarda spaziale di Goldrake, non vivi in un quadro di Pellizza da Volpedo. Ed è proprio per questo che ti hanno selezionato, è il motivo per cui hai superato il test, sei disposto a cambiare te stesso, ma non ho mai capito se questa cosa funziona. Sei un uomo flessibile, sei disposto a plagiare te stesso, ma non ho mai capito se questa cosa fila. Qualcuno se ne esce anche di testa. E c’è sempre qualcun altro con una faccia così, una faccia da mobile laccato che non solleva un granello di polvere, ma ti dice be’ adesso non fare così, figliolo. Figliolo non fare così, adesso, non essere così ipersensibile, figliolo. Lui richiamerà. Forse. In fondo è un ingegnere, un uomo da secolo dei lumi. Poi squilla di nuovo il telefono.
“Avevo la mia attività”, dice un’altra voce fallita, “andata, chiusa, finita, non riesco più a respirare, mettersi in proprio è l’unica maniera di fare soldi e fare soldi è l’unica maniera per essere rispettati”.
“C’è gente che salva vite, infermieri, medici, insegnanti delle scuole che tirano su bambini”, dico.
“Tutti la menano con questi tizi, quanto è bravo questo, quanto è nobile quello, fanno sissì con la testa, come no, ma sta certo che un lavoro così non lo farebbero mai, quello che vogliono sono soltanto i soldi, è così che gira il mondo e io ho perso tutto”.
“Immagino che lei sia a pezzi”.
Uno così non si ammazza. Tutt’al più diventa flessibile. No. Metti a fuoco. Concentrati.
“Ha famiglia?”, chiedo.
Il resto sono segni neri da cronaca.
L’ingegnere, quello delle giostre a catena, l’hanno trovato in un parco pubblico. Per togliersi la vita si è messo un sacco di plastica in testa. Ero convinto lo facesse in un albergo. In tasca aveva una lettera, ma la pioggia l’ha resa illeggibile. In quel parco ci andava spesso con il figlio di otto anni.