Lo stress da lavoro-correlato è una situazione di prolungata tensione causata da diversi fattori, che può determinare problemi di salute fisica e psicologica. Non è facile da misurare, ma è altrettanto dannoso di tutti gli altri elementi di rischio più immediatamente percepibili. Tanto che il d.lgs 81/2008 obbliga le aziende a effettuarne la valutazione al pari di quelli fisici, biologici e chimici. Il rischio stress è per sua natura strettamente collegato all’organizzazione del lavoro, quindi ai tempi e ai ritmi, agli orari, al controllo della prestazione e alle relazioni gerarchiche, tutti fattori particolarmente pesanti proprio laddove si lavora in linea di montaggio e a turni. Elementi che con il tempo possono provocare danni anche gravi alla salute psicologica, aumentando il rischio di incidenti, nonché danni alla capacità riproduttiva dei lavoratori ma soprattutto delle lavoratrici, sulle quali grava ancora in larghissima misura, oltre l’orario di lavoro, anche il peso del lavoro domestico e di cura. 

A tre anni dall’inizio della rilevazione del rischio stress, il bilancio di quanto è stato fatto è purtroppo assai deludente. Dalle rilevazioni ufficiali sembrerebbe che l’Italia – che difficilmente può dirsi all’avanguardia in Europa rispetto a ritmi, orari e condizioni di lavoro – sia invece particolarmente «virtuosa» sul rischio stress, considerato che questo sarebbe alto soltanto nel 3 per cento delle aziende, contro una media europea superiore al 20. Anche al meno scettico viene legittimamente il dubbio che non sia il rischio stress a non esistere, ma che la valutazione sia stata realizzata in modo da non farlo emergere. Anzitutto, in tantissimi posti di lavoro proprio non viene fatta. Poi, dove è stata fatta il coinvolgimento degli Rls è stato scarso o inesistente. Infine, chi doveva valutare se una condizione di lavoro era a rischio stress o meno non erano i lavoratori direttamente coinvolti, ma gruppi di addetti scelti dalle aziende, quando non i loro preposti. È evidente che così il rischio stress in Italia non esiste.

Eppure, dall’inchiesta di massa che la Fiom fece nel 2008 sulle condizioni di lavoro e di vita dei metalmeccanici, basata su 100 mila questionari compilati (un numero enorme e statisticamente inattaccabile), emerse un quadro radicalmente diverso, in particolare per le donne e nei settori manufatturieri (come l’automobile, l’elettronica, l’elettrodomestico). In questi comparti, la maggioranza di operai e operaie rispondeva di svolgere un lavoro altamente ripetitivo e parcellizzato, con atti e movimenti anche inferiori ai 30 secondi (oltre l’80 per cento, e anche oltre il 90 tra le donne), un lavoro monotono (oltre il 70), con ritmi elevati (circa il 65) e scarsissimo controllo sulla prestazione: un operaio su quattro dichiarava di non poter nemmeno fare le pause fisiologiche, addirittura uno su due nei reparti manufatturieri. Tanti di loro (il 40 per cento) dichiaravano di considerare compromessa la propria salute già dopo pochi anni di lavoro e non credevano (60 per cento) di poter continuare a lavorare in quelle condizioni fino a 60 anni (chissà cosa risponderebbero ora quelli che andranno a 69…). Poteva solo allarmare, oggi come allora, il fatto che in alcuni stabilimenti dell’automobile un’operaia su quattro dichiarasse di avere abitualmente problemi di insonnia.

Da allora sono passati alcuni anni, ma purtroppo le condizioni non possono che essere peggiorate: con la crisi sono diminuiti gli investimenti in innovazione e sicurezza, con la riforma Fornero prima e il Jobs Act poi sono aumentati per tutti la ricattabilità e il tempo di permanenza al lavoro. Se potessimo riproporre oggi le stesse domande, e fossero come allora i lavoratori e le lavoratrici “in carne e ossa” a rispondere (e non l’Rspp o il caporeparto o chiunque nominato dall’azienda, come è stato invece nella valutazione del rischio stress), l’Italia apparirebbe meno “virtuosa” di quanto i dati ufficiali non mostrino. E forse quella che poteva essere una cosa utile, ossia l’obbligo della rilevazione del rischio stress, non avrebbe finito per essere l’ennesima enorme occasione mancata.

Eliana Como è dell'Ufficio studi Fiom Cgil