Il 20 giugno è stato presentato il cosiddetto dossier Gutgeld, relativo agli effetti della Spending Review. Sebbene la traduzione dall’inglese di Spending Review sia “revisione della spesa”, il significato economico è molto più semplice: taglio della spesa pubblica. Questo perché, dopo la recente riforma del bilancio pubblico, la Spending è diventata linea di politica economica pubblica, linea che tra poco sarà ancora più stringente attraverso un provvedimento attuativo. In questo modo, il bilancio pubblico, a tutela degli interessi dello Stato, diventa a tutti gli effetti un bilancio “aziendale”, venendo meno al ruolo di governo dei processi economici.

È l’effetto del Fiscal Compact europeo, che fortunatamente sarà ridiscusso in autunno. Se l’Europa o un solo Paese valutasse il Fiscal Compact inefficace per l’economia nel suo insieme, l’architrave europeo delle politiche di austerità non diventa “diritto comunitario”, aprendo una discussione e un dibattito “inedito” sul ruolo economico della Commissione. Quanto ha inciso la Spending Review nell’esercizio del bilancio pubblico? Troppo e male. Gutgeld, con “orgoglio”, ha rivendicato la cancellazione di capitoli di spesa e/o riduzione cumulata della stessa spesa per 30 miliardi di euro tra il 2014 e il 2017: meno 3,6 miliardi nel 2014; meno 18 miliardi nel 2015; meno 25 miliardi nel 2016; meno 31,5 miliardi nel 2018.

Sebbene i risparmi (tagli) siano importanti, il dossier nasconde un fatto economico (politico) enorme: con il passare degli anni il risparmio di spesa legato ai tagli della spesa pubblica è diventato sempre più difficile, soprattutto in un Paese in cui la spesa pubblica è tra le più basse a livello europeo. Durante il primo anno il taglio via Spending Review è pari a 14,5 miliardi; il secondo anno è pari a 7 miliardi; il terzo anno è pari a 4,5 miliardi di euro. In altri termini, non c’è più “grasso” da tagliare, sempre che di grasso si possa parlare quando ci riferiamo alla spesa pubblica.

Gli effetti finanziari sono rilevanti. Se consideriamo che la manovra finanziaria per il 2018 non può essere inferiore a 19 miliardi in ragione delle cosiddette clausole di salvaguardia, cioè anticipo di spesa (i famosi 80 euro e altre sciocchezze simili), a cui deve coincidere un taglio di spesa pubblica in misura equivalente, oppure un aumento di Iva e accise nella stessa proporzione, la caduta tendenziale dei risparmi potenziali legati alla Spending Review diventa un problema rilevantissimo. Naturalmente, non manca l’orgoglio governativo: il personale pubblico è diminuito di circa 84 mila unità. In quanti sanno che il personale della pubblica amministrazione italiana è di molto inferiore alla media europea, e che il blocco del turnover consegna al Paese una pubblica amministrazione “anagraficamente” vecchia?

Un bel problema, se consideriamo che al di sotto di un certo livello (economico, finanziario, conoscenza, anagrafico) la pubblica amministrazione è strutturalmente incapace di trattare, non dico risolvere, i problemi del Paese. Ma il governo persegue nelle sue politiche. Qualche ministro sottolinea la necessità di ridurre le tasse e il cuneo fiscale. La politica economica del Paese rimane un mistero. È mai possibile che la crescita passi dal taglio della spesa pubblica e la riduzione delle tasse a favore delle imprese e dalla riduzione del costo del lavoro?

Se il trend di risparmi tende a ridursi, rimane sempre aperto il cantiere della spesa sociale (337 miliardi di euro) e, soprattutto, la tax expenditure (detrazioni-deduzioni). Cosa si può fare in alternativa? Rispondo con un metodo di lavoro: l’efficacia o meno della spesa pubblica non dipende solo dalla sua dimensione, aspetto comunque non trascurabile, ma anche dalla composizione delle entrate e delle spese. I metodi della programmazione del bilancio hanno visto lo sviluppo di diverse metodologie (costi-benefici, bilancio a base zero ecc.), ma sempre con la finalità di governare la formazione della spesa pubblica, superando la logica del risparmio più o meno necessario. Solo in questo modo la scelta della composizione e della formazione della spesa diventa politica economica pubblica.