Non è il solito call center movie. Ormai un piccolo filone a sé nel cinema italiano degli ultimi anni, che attraversa vari registri stilistici, dal documentario Parole sante di Ascanio Celestini alla commedia di Paolo Virzì, Tutta la vita davanti. Ma l’esordio alla regia di Federico Rizzo, giovane cineasta nato a Brindisi e trapiantato a Milano, si muove lungo una linea diversa.


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Fuga dal call center racconta le peripezie di una coppia: entrambi giovani, lui appena laureato, lei alle prese con la tesi, che devono affrontare il primo approccio con il mondo del lavoro. Non sarà facile: Gianfranco, dopo la lunga ricerca di un impiego adatto alla sua formazione, accetta di lavorare in un call center.

E’ l’ingresso di un ragazzo nel pianeta precariato, ma non solo: la pellicola alterna la storia di finzione a interviste vere, realizzate proprio nei call center, in cui gli operatori raccontano lucidamente la propria realtà quotidiana. A colori la prima parte, l’altra in bianco e nero; e proprio questo accostamento tra fiction e non fiction, azzardato ma originale, provoca un effetto di sovrapposizione che tiene sempre acceso l’interesse. Come a dire: mettiamo in scena finti precari, ma non ci dimentichiamo dei precari veri.

Il punto forte del film è la deriva grottesca. Di fronte a un tema ad alto rischio retorica, per la varietà e superficialità delle sue trattazioni, si distingue proprio grazie alla scelta di registro: sia la storia di Gianfranco e Marzia che gli innesti reali parlano con lo stesso tono estraniato. Non si dà mai una rappresentazione letterale del call center che, forse più vicina al vero, avrebbe sicuramente funzionato di meno a livello narrativo; la pellicola si serve di metafore e trasfigurazioni simboliche per arrivare al nocciolo della questione.

In questo senso l’invenzione è costante. Per ottenere il “posto”, ad esempio, Gianfranco deve sottoporsi a una paradossale visita psichiatrica condotta da Tatti Sanguineti al colmo della follia; il dottore, dopo una serie di domande destabilizzanti, si rivolge al ragazzo e afferma: “Prima si faceva il militare, ora si passa un anno al call center. Benvenuto all’inferno”. Questi toni alterati si applicano all’intera pellicola e fanno la sua particolarità: i precari in preda ad allucinazioni iniziano presto a vedere Callman, il supereroe dei call center…

A ben guardare, però, con la fantasia si dicono molte cose delle realtà. Viene quindi accennato il timore della “laurea inutile” (il protagonista la prende in vulcanologia!) e il capestro dell’instabilità finanziaria, che si ripercuote direttamente sulla sfera affettiva; d’altra parte non meno inquietanti sono le voci vere disseminate per la visione, che parlano delle rispettive difficoltà e umiliazioni ma talvolta, a sorpresa, interpretano il call center come un lavoro serio e lo svolgono con grande dignità.

Uscito lo scorso 17 aprile, prodotto da Cooperativa Gagarin e Ardano Production e distribuito da Orda D'oro Distribution, quello di Rizzo è un film giovane in tutto e per tutto: lo sono anche gli interpreti principali, Angelo Pisani e Isabella Tabarini in evidente rapporto chimico. Lo è anche la colonna sonora, attingendo da artisti come Tre allegri ragazzi morti e Caparezza, che ha omaggiato proprio i precari nell’ultima hit, Eroe. Un film che sta facendo il giro dell’Italia, in questi giorni, per conquistare la visibilità che merita anche se fuori dalle solite logiche distributive.

L’ultima parola va spesa sul titolo. L’idea della “fuga”, infatti, è ripresa direttamente dal cinema fantascientifico – vedi 1997: Fuga da New York di John Carpenter – o comunque da un’ispirazione angusta e carceraria. Era Clint Eastwood che fuggiva da Alcatraz. Il call center è quindi una prigione, non un “fenomeno” ma ormai dato di fatto da cui, nell’attuale struttura sociale, non si può più prescindere. Si può resistere, secondo questo film, oppure fuggire a gambe levate.