Confesso di avere un certo imbarazzo a scrivere sull’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori qualcosa che non sia già stato detto e scritto dai (finora pochi) dirigenti sindacali chiamati a esprimere la loro opinione. Il mondo sindacale sa bene che fino alla legge Fornero, l’articolo 18 garantiva ai lavoratori ingiustamente licenziati, il diritto di tornare al proprio posto di lavoro. Una norma che non risponde per niente alla retorica ideologica secondo la quale questa norma risponderebbe alla concezione di job property (cioè essere proprietari del proprio posto di lavoro), ma al contrario risponde a un elementare principio di diritto civile: l’inefficacia degli atti dichiarati illegittimi.

Per questa ragione, un atto illegittimo non può produrre i suoi effetti e la reintegrazione si limita a precisare questo punto di normale civiltà. Il problema, allora, sta nel fatto che senza articolo 18, un rapporto di lavoro si può estinguere (licenziamento) anche senza una giusta causa. E se ciò già accade nelle imprese con meno di 15 dipendenti, il problema di illegittimità costituzionale sussiste eccome (al contrario di quanto sostiene la vulgata governativa, non so con quanta cognizione di causa).

Peraltro, il principio di conservazione del posto è esattamente quanto previsto nel modello tedesco adesso evocato dal governo. Non so se per ignoranza o per malafede, ma si omette di ricordare che in Germania, in caso di licenziamento senza giustificazione, “il rapporto di lavoro non è risolto” (ai sensi del Kundigungsschutzgesetz, cioè la legge sul licenziamento del 1951). Al massimo, l’imprenditore può chiedere al giudice di valutare la possibilità di trasformare la reintegrazione in un’indennità, solo se dimostra che la reintegrazione è dannosa per l’impresa. Quindi, non siamo l’unico paese ad avere la reintegrazione in caso di licenziamento senza giustificazione.

Ciò detto, tralascio gli argomenti sollevati dai “modernizzatori del diritto del lavoro”, secondo i quali l’Italia avrebbe il mercato del lavoro più rigido, che la rigidità non crea occupazione e che la flessibilità migliora la produttività (secondo innumerevoli studi, non solo essa non migliora la produttività, ma al contrario tende a far diminuire gli investimenti in innovazione). Comunque, lascio agli economisti la confutazione di questi infondati argomenti. Qualcos’altro, però, si deve dire su altri due argomenti opposti all’articolo 18, dai quali possiamo cogliere l’ideologia del governo sulle politiche del lavoro, argomenti presentati in questo modo: 1) l’articolo 18 riguarda una minoranza di lavoratori perché è stato applicato poche volte; 2) scoraggia gli investimenti stranieri perché prevede l’intervento del giudice, fonte di incertezza per le imprese.

Il fatto che si arrivi poche volte a sentenza di reintegrazione non vuol dire che l’articolo 18 non eserciti la sua funzione regolativa per i circa 8 milioni di lavoratori impiegati nelle imprese con più di 15 dipendenti. Quel numero di sentenze indica le volte in cui il giudice ha condannato alla reintegrazione, ma non ci dice nulla di tutte le cause per licenziamento che si sono chiuse prima con un accordo fra impresa e lavoratore; certo, in questi casi la causa si risolve con una somma di denaro, ma viene concordata fra le parti in condizione di effettiva parità negoziale. Peraltro, volutamente si omette di dire che l’articolo 18 modificato dalla legge Fornero ha di fatto profondamente scoraggiato i lavoratori ad arrivare a sentenza, spingendoli (o meglio, costringendoli) ad accettare una conciliazione: cioè ancora un accordo monetario.

Aggiungo che quei numeri sulle sentenze non ci dicono, invece, di quante cause sui licenziamenti si concludono a favore delle imprese, cioè col giudice che riconosce la giustificazione dei motivi addotti dalle imprese. Non solo. Sarebbe molto utile che questi scienziati delle statistiche calcolassero anche tutti i casi di licenziamento che non vengono neanche impugnati dai lavoratori. Se alla fine i numeri dei licenziamenti sono relativamente contenuti, è anche perché il diritto italiano frena le imprese a procedere a licenziamenti con una certa leggerezza, magari di fronte a un minimo scostamento negativo rispetto al piano industriale, scaricando il rischio d’impresa sui lavoratori. Insomma, sono pochi perché l’articolo 18 fa da deterrenza ai licenziamenti ingiustificati, non a quelli che la giustificazione ce l’hanno.

La deterrenza operata dall’articolo 18 si materializza nel controllo operato dal giudice. Ecco il vero bersaglio dall’attacco a questa norma. Ciò che viene contestato è il fatto che un giudice dello Stato possa effettuare un controllo sul rispetto della legge. Questi sacerdoti dell’insindacabilità della ragione dell’impresa ritengono oltraggioso che un giudice possa valutare la sussistenza del nesso causale fra la ragione economica addotta dall’impresa e la scelta di sopprimere quel posto di lavoro. Insomma, un’espressione della più generale tendenza a rimuovere il controllo “pubblico-statale” e lasciare che la decisione sia solo “privata-aziendale”. In questo senso, possiamo dire che ha ragione Marchionne a dire, senza fronzoli, che la questione ha un valore simbolico, più che sostanziale. Io aggiungo che in questo simbolo c’è molta sostanza.

Ecco allora l’ideologia di cui è impregnato questo governo, come i precedenti e come le istituzioni comunitarie e finanziarie internazionali: la de-statalizzazione dell’economia, cioè la sua riduzione a dinamica governata dagli attori economici e non dalle istituzioni pubbliche democratiche (almeno fino a quando queste istituzioni manterranno tale profilo di espressione della rappresentanza democratica). Si tratta dell’ideologia che esprime la ragione dell’impresa come fonte del diritto; l’impresa impegnata nella concorrenza, altro totem dell’economia neo-liberale. La concorrenza, lo spirito d’impresa che deve innervare tutta la società, quindi anche i lavoratori. Perciò il diritto non deve permettere alcuna conservazione del posto di lavoro, neanche quando il licenziamento è ingiustificato, perché quel posto di lavoro dovrà essere conservato solo se quel lavoratore avrà successo nella concorrenza del mercato del lavoro; in fin dei conti, monetizzare il licenziamento significa dotarlo di un “capitale” che ciascun lavoratore potrà impiegare nel mercato del lavoro come fosse un’impresa, ognuno “responsabile” di se stesso.

Il diritto concorrenziale del lavoro, non si occupa di riequilibrare i poteri nell’impresa, ma solo fare dell’impresa il paradigma dell’azione economica, fino a confondere l’impresa coi lavoratori. In questo paradigma, non c’è spazio per la solidarietà, men che meno per la solidarietà fra lavoratori. Questa assolutizzazione dell’impresa in concorrenza è la nuova costituzione materiale, che supera definitivamente la solidarietà come fondamento della società.

*Professore di Diritto del lavoro Università di Bari “Aldo Moro”