Il lavoro ha prima di tutto una funzione privata: serve essenzialmente a guadagnarsi da vivere. Tuttavia, in una società democratica esiste una dimensione pubblica della quale tutti fanno parte: ciascuno è al tempo stesso una persona privata, che lavora, e una persona pubblica, cioè un cittadino, portatore in quanto tale di diritti politici, a cominciare da quello di voto.

La scommessa della Repubblica italiana è stata che la cittadinanza politico-giuridica, universale, potesse essere sposata con la dimensione del lavoro. Il lavoratore in quanto tale è da considerare portatore di valori, o di problemi, universali. La Repubblica si dice “fondata sul lavoro” proprio perché non si basa solo sulla cittadinanza, ma anche su quello che è apparentemente il lato privato della vita, quello in cui ciascuno bada a se stesso.

Eppure, questa attività privata, il lavoro, viene riconosciuta così importante – anzi, determinante – nella vita delle persone e della società nel suo complesso, che anch’essa viene caricata di un valore politico e pubblico. Il lavoro, che è un fatto privato, è anche un fatto pubblico e deve poter essere riconosciuto e valorizzato come tale: questo è il significato profondo dell’articolo 1 della Costituzione. A rendere effettivo questo principio siamo arrivati però solo nel 1970, con lo Statuto dei lavoratori.

Il lavoro è sempre stato un fattore identitario, in grado di far sì che il singolo fosse soltanto ciò che era. In una lunga fase della storia occidentale, il lavoro collocava nella fascia più bassa della società, quella esclusa da qualsiasi diritto politico. In una fase storica successiva, quella medioevale, collocava, almeno in alcune parti dell’Europa (tra cui l’Italia), all’interno di una corporazione. Oggi, nelle logiche democratiche costituzionali dentro le quali dovremmo vivere, il lavoro qualifica chi lo esercita come essere umano che pensa a se stesso, ma anche come un soggetto al quale, nel contempo, sono riconosciuti diritti e rivendicazioni universali.

Il fatto è che nel lavoro entrano in gioco questioni – il rispetto della dignità, il riconoscimento di un’equa retribuzione, la regolamentazione dei tempi e dell’organizzazione –  che non si sbrigano, né si risolvono in privato, nel rapporto tra il lavoratore e il suo datore, ma possiedono una dimensione pubblica e politica. Dalla necessità – il lavoro come fatto privato significa, appunto, che in esso ciascuno ha a che fare con il bisogno – si può quindi passare, in un assetto democratico (non solo formale, ma sostanziale, cioè in un assetto di Stato sociale), alla libertà, nel senso almeno che nel lavoro si vede e si valorizza un’energia anche emancipativa e partecipativa. Il lavoro è legame sociale e legame politico.

Ma nella fase post-democratica che si è aperta da trent’anni, si è generata una nuova contraddizione: il lavoro è sempre più libero, nel senso che è stata fatta passare l’idea che esso sia la dimensione di un’autorealizzazione competitiva, di tipo individualistico e imprenditoriale, aperta a tutti; che non ci sia quindi più bisogno delle grandi strutture intermedie (il sindacato e il partito), chiamate a organizzare il lavoro per renderlo politico. Il lavoro libero è libero da Stato, partiti, sindacato: è la corsa al successo. Ma questo individualismo si è rivelato in realtà un assoggettamento radicale del lavoratore a poteri economici illimitati, davanti ai quali non ha alcuna difesa. Non solo. Il lavoro è al tempo stesso non solo “fuori” dalla politica e dal sindacato, ma sempre più spesso “altrove” rispetto alla fabbrica, perdendo anche in questo modo il suo collegamento con la cittadinanza.

Finisce così con l’essere, il lavoro, una faccenda strettamente privata, in cui si fronteggiano il datore e il lavoratore e quindi, dati i rapporti di forza, il lavoro diviene spesso disumanizzante, sottopagato e privo di diritti. E non mi riferisco solo al lavoro che “si vede”. Ci sono molti lavori che sono altrove perché non li vediamo, “fuori” dall’attenzione: i lavori clandestini, i lavori “neri”, i lavori schiavistici, di cui è pieno il mondo e anche il nostro Paese.

Insomma, in questa falsa libertà il lavoro è “fuori”, “altrove”, anche rispetto al  singolo lavoratore: è infatti sempre più frequente lo scollegamento tra la vita della persona e l’attività lavorativa. Le infinite difficoltà di trovare un lavoro stabile rendono sempre più difficile identificarsi con la propria attività. “Il mio essere non è il mio lavoro”. Per non dire dell’altra forma del dislocarsi “fuori” del lavoro: il lavoro fuori dall’uomo, governato dai robot, dalle macchine, dai sistemi informatici. Come anticipava Marx nel “capitolo delle macchine” (Capitale, Libro I, Capitolo 13), siamo arrivati al punto in cui o si costituisce un nuovo sistema integrato di cooperazione tra uomo e macchina all’interno della cooperazione tra gli uomini, oppure il lavoratore, al di là della sua qualifica, diventa semplicemente ingranaggio, appendice della macchina.

Questo era vero anche nella fase fordista-taylorista, ma è ancora più vero nella fabbrica hi-tech, dove il lavoratore è ancora più spossessato della capacità di comprendere e controllare quello che fa, dovendosi confrontare con una tecnologia complessa ed evoluta, alla quale risulta subalterno. L’operaio più formato e specializzato, che lavora a contatto con le macchine più avanzate, fa certo molta meno fatica fisica di quella che facevano i suoi predecessori, ma probabilmente ha anche molte meno possibilità di comprendere quello che sta facendo.

Oggi, quindi, ci sono i lavoratori fortunati che stanno nelle fabbriche hi-tech, e ci sono quelli sfortunati che raccolgono pomodori, organizzati dal caporalato o prigionieri nelle galere della Camorra. E ci sono sempre meno lavoratori “normali”, ovvero persone in condizione di comprendere ciò che fanno sul posto di lavoro, retribuite adeguatamente e in grado di incidere in qualche modo sull’ambiente e sull’organizzazione del lavoro.

Senza dimenticare che la perdita di identità nel lavoro va di pari passo con la perdita della partecipazione politica. Sia chiaro: è vero che nessuno (o meglio, pochi: in vista dei successi dei “populisti”, già si sentono voci che si rammaricano dell’esistenza del suffragio universale) elimina seccamente e formalmente il diritto di voto, i diritti di cittadinanza; ma è altrettanto vero che quei diritti appaiono come sempre più dissociati dal lavoro, e quindi oggi restano astratti, poco sentiti. E non a caso l’esercizio più tipico della cittadinanza, esercitare il voto, è sempre meno praticato.

In teoria, non ce ne sarebbe ragione: si può lavorar male ed essere infelici e oppressi sul luogo di lavoro, e però avere voglia di andare a votare, di partecipare in qualche modo alla vita politica. Ma, in realtà, se si perde identità e dignità sul luogo di lavoro, viene meno anche l’interesse a partecipare alla cosa pubblica. Questa dissociazione tra lavoro e cosa pubblica non è avvenuta per caso. Qualcuno – gli araldi del neoliberismo e i loro padroni – l’ha voluta, teorizzata, messa in pratica, utilizzando una vasta gamma di strumentazioni intellettuali, giuridiche, economiche, politiche. Lo sanno bene i sindacati, che si trovano a dover organizzare non più classi, ma individui, che considerano il lavoro solo come strumento per guadagnarsi la sopravvivenza, o una vita decente, e non più come una dimensione nella quale si afferma l’identità della persona, meno che mai una dimensione essenziale alla cosa pubblica.

È evidente che la via d’uscita da questa situazione non si gioca in campo puramente economico. È successo qualcosa – la rivoluzione neoliberista, con le sue crisi – che deve prima di tutto essere compreso, in una dimensione di lungo periodo. Di seguito, se si vuole rifiutare questa deriva, occorre innescare un grande processo di riorganizzazione della società e della politica. Le istituzioni devono essere interessate a far sì che la società non sia composta da milioni di individui privi di relazioni, “atomici”; occorre ridare un ruolo alle organizzazioni, ai corpi sociali, ai partiti – senza i quali una ricostruzione della democrazia è impossibile – e ovviamente ai sindacati. I quali devono ritrovare un accesso diretto alla politica, da cui oggi sono sostanzialmente esclusi.

Il compito della ricostruzione dei corpi intermedi (partiti e sindacati) è il nostro compito attuale. E ciascuno deve fare la sua parte. L’obiettivo è la necessaria ricostruzione dell’identità del lavoratore, che sia in relazione a una nuova dimensione della politica, per contrastare la dissociazione operata dal neoliberismo. Non è facile, ma se non ricostruiamo il nesso tra lavoro e politica attraverso i due ponti di cui abbiamo accennato, cioè i partiti e i sindacati, non andremo da nessuna parte. E scivoleremo dalla democrazia alla post-democrazia, e da questa ad avventure populiste, o peggio.

Carlo Galli è docente di Filosofia della politica all’Università di Bologna e presidente della Fondazione Gramsci dell’Emilia Romagna