A oltre vent’anni dall’approvazione della legge 142, che istituiva le mai attuate Città metropolitane, sembrava che in Italia i processi di riforma istituzionale fossero destinati a rimanere  sulla carta. A nulla infatti erano valse le reiterate iniziative legislative adottate in questo senso, non ultima la riforma costituzionale del 2001. Una condizione di immobilismo che ha caratterizzato non solo la riforma metropolitana, ma anche un’altra questione fortemente dibattuta: quella relativa alle Province. È quest’ultimo il livello istituzionale che più di tutti è stato negli anni oggetto di prese di posizione nette quanto trasversali su una sua presunta inutilità e sull’opportunità di una sua abolizione

In generale, la diffusa percezione circa l’esigenza di una riforma istituzionale che ridefinisca i confini del governo locale deriva dalla consapevolezza che la dispersione territoriale di insediamenti urbani e di attività produttive richiede una revisione degli assetti esistenti in direzione di una maggiore integrazione tra confini funzionali e confini istituzionali del territorio. Ciò riguarda tanto le aree urbane quanto le aree peri-urbane o rurali (sempre meno distinguibili, tanto che si è arrivati a parlare di “riurbanizzazione” dei territori). Decenni di sostanziale immobilismo sono stati interrotti dalle iniziative recentemente intraprese dal governo nazionale, che, con il provvedimento sulla cosiddetta spending review (legge 135/2012, seguita dal decreto attuativo n. 188), è tornato a porre al centro dell’agenda politica il tema delle riforme istituzionali.

La questione della Città metropolitana è affrontata all’articolo 18 delle legge, con l’individuazione di essa nel territorio della Provincia corrispondente, che cessa di esistere contestualmente con l’attuazione della riforma. In ciascuna delle 9 Città metropolitane viene costituita una Conferenza composta dal presidente della Provincia e dai sindaci dei Comuni interessati. La Conferenza deve produrre uno Statuto provvisorio della città metropolitana entro i 90 giorni precedenti la data di costituzione della nuova istituzione. L’implementazione della riforma è prevista entro la fine del 2013. Anche il tema delle Province è affrontato nell’iniziativa del governo sulla revisione della spesa.

Dopo un lungo dibattito circa l’opportunità di un’eventuale abolizione di questo livello istituzionale, il governo nazionale ha preferito seguire la strada più semplice di un loro depotenziamento prima e di un loro accorpamento dopo. Con il decreto legge n. 201 del 2011 (il cosiddetto decreto “Salva Italia”) venivano infatti soppresse le giunte provinciali e il numero di consiglieri veniva ridotto a 10, eletti non più direttamente dai cittadini, ma dal Coordinamento dei consiglieri dei Comuni della Provincia.

Le Province, ridotte così a ente di secondo livello, sono state destinate dalla spending review a un arccorpamento, la cui conclusione è prevista per la fine del 2013. A seguito di questa data, nelle Regioni a Statuto ordinario il numero delle Province scenderà da 86 a 51.  I tempi non sono maturi per prevedere se queste iniziative legislative siano destinate, a differenza di quelle che le hanno precedute, ad avere successo. Una prima valutazione di questo rinnovato attivismo nazionale in tema di riforme istituzionali può tuttavia da subito evidenziare alcune luci insieme a molte ombre.

Quanto alle (poche) luci, di certo è da considerare positivamente la possibilità che dopo vent’anni di vani tentativi si costituiscano in Italia governi di livello metropolitano. Si tratta di una possibilità che può aiutare a dotare le aree metropolitane di istituzioni in grado di governarle con efficacia, producendo servizi e regole che non possono essere più relegati entro i confini comunali: si pensi al trasporto pubblico, alla gestione dei rifiuti o alla pianificazione urbanistica.

È possibile infatti individuare in questa iniziativa
una novità rilevante rispetto a quelle che l’hanno preceduta: il processo di istituzione della Città metropolitana viene fortemente semplificato, e il numero di attori coinvolti è drasticamente ridotto. In particolare, si segnala come le Regioni - rispetto alla prima formulazione della riforma – perdano il ruolo di veto players, che aveva rappresentato un ostacolo rilevante sulla strada della sua attuazione.

In direzione opposta sembra andare tuttavia la riforma delle Province, il cui accorpamento non segue alcun criterio di natura funzionale, ma esclusivamente dei requisiti di natura quantitativa. Lo stesso esercizio trasversale di denigrazione dell’istituzione provinciale, di cui questo provvedimento è conseguenza, non tiene conto del ruolo fondamentale svolto dagli enti di livello intermedio, che più di altri si approssimano al tanto invocato quanto poco praticato “governo di area vasta”.

Ecco che emerge allora il vero limite delle riforme istituzionali adottate nel corso dell’ultimo biennio. Esse, lungi dal voler riformare l’ordinamento dello Stato in direzione dell’avvicinamento tra confini istituzionali e confini funzionali, hanno guardato esclusivamente alla riduzione della spesa pubblica. Sembra darne conferma un dato: le Città metropolitane, così come le Province, saranno governate da Consigli composti da non più di 16 membri, i quali non avranno diritto a emolumenti.

Uno scenario che lascia aperte domande circa la
rappresentatività di queste assemblee e la legittimazione democratica di decisioni che interesseranno milioni di cittadini. Resta quindi sul campo l’esigenza di politiche istituzionali volte non solo e non tanto a ridurre la spesa pubblica, quanto a dotare i territori (più o meno urbanizzati che siano) di livelli di governo intermedi che sappiano interpretarne bisogni e potenzialità e, per questa via, facilitare processi di sviluppo locale.

*Dottore di ricerca in Scienza della politica all’Istituto italiano di Scienze umane di Firenze