In una recente intervista rilasciata a Rassegna Sindacale, il segretario generale della Flc Cgil Francesco Sinopoli ha evidenziato che la valutazione della ricerca, in Italia, è “ideologicamente orientata”, ed è vero. Lo sciopero dei professori e ricercatori universitari in atto – con la sospensione degli esami di profitto nella sessione autunnale per lo sblocco degli scatti stipendiali fermi dal 2011 – dovrebbe provare a incidere anche su questi aspetti. O comunque dovrebbe configurarsi come un punto di partenza per una radicale revisione delle politiche formative messe in atto negli ultimi anni.

L’obiettivo fin qui raggiunto dallo sciopero non va sottovalutato: dopo anni di totale silenzio, l’Università torna nel dibattito pubblico. Ed è un’occasione da non perdere per rivendicare anche altro. I temi in discussione sono tanti: il sottofinanziamento degli Atenei, il precariato della ricerca, la valutazione. Che la valutazione della ricerca scientifica sia un esercizio doveroso, se non altro perché questa è in larga misura pagata dai contribuenti, pare ormai un’opinione pressoché unanime. Il problema nasce quando ci si chiede come la ricerca scientifica è valutata in Italia.

È bene chiarire che, soprattutto nell’ambito delle scienze sociali, ogni esercizio di valutazione è, per sua natura, normativo, ovvero indica ciò che i ricercatori dovrebbero fare. E, per quanto attiene al caso italiano, è l’Agenzia nazionale di valutazione della ricerca (Anvur) a stabilirlo, avvalendosi di tecniche e metodologie alquanto discutibili. Fra queste, si può considerare il fatto che Anvur considera “eccellente” un ricercatore che pubblichi su riviste con elevata “reputazione”, del tutto indipendentemente dalla rilevanza dei contenuti della ricerca.

La “reputazione” di una rivista è certificata dal suo “fattore di impatto” (impact factor), e la sua certificazione è effettuata sulla base di criteri individuati dall’istituto Thomas Reuters, azienda privata anglo-canadese. In altri termini, in Italia si valuta il contenitore (la rivista), non il contenuto (l’articolo in sé), e il contenitore è buono se lo considera tale una delle più grandi imprese private su scala mondiale che opera nel settore dell’editoria. Va peraltro ricordato che l’impact factor è stato pensato come strumento per selezionare l’acquisto di riviste da parte delle biblioteche universitarie, e, anche sul piano strettamente tecnico, da più parti se ne sconsiglia l’uso ai fini della valutazione della ricerca scientifica.

Non solo. Va anche ricordato che negli Stati Uniti – le cui Università sono comunemente ritenute estremamente sensibili alla “cultura della valutazione” – l’impact factor non è quasi mai considerato un indicatore attendibile per valutare la qualità della produzione scientifica. È del tutto evidente che questa impostazione non ha effetti neutri sugli orientamenti della ricerca scientifica e, nel campo delle scienze economiche e sociali, sugli orientamenti dell’analisi economica e della politica economica.

Le riviste con più alto fattore di impatto sono riviste – prevalentemente statunitensi – che accolgono quasi esclusivamente (in molti casi, esclusivamente) articoli scientifici che, schematizzando, o utilizzano tecniche derivate dall’economia per studiare problemi non economici – il cosiddetto imperialismo dell’economia – o legittimano gli indirizzi di politica economica dominanti. Ne deriva un’attitudine conformista, soprattutto per le giovani generazioni, che impedisce di fatto di impegnarsi in ricerche che possano produrre risultati realmente innovativi.

L’economia – come è noto – è una disciplina intrinsecamente politica, ed è dunque intrinsecamente politico ogni esercizio di valutazione della ricerca economica. Il che dovrebbe indurre a riflettere in merito al fatto che l’operazione Anvur non è riconducibile a un rito che si consuma nella Torre d’avorio dell’Università italiana, ma riguarda o dovrebbe riguardare in primo luogo gli studenti e le loro famiglie.

La valutazione della ricerca fatta da Anvur va contrastata sì per i non pochi errori tecnici che l’Agenzia ha commesso e continua a commettere, ma anche perché istituisce una modalità di valutazione calata dall’alto, intrinsecamente illiberale, senza alcuna possibilità di controllo da parte di chi (docenti e, per conseguenza, studenti) ne è destinatario, ma soprattutto perché – quantomeno nelle scienze sociali – è un’operazione niente affatto neutra, ovvero è politicamente e ideologicamente orientata.

Si può aggiungere che i costi di funzionamento dell’Agenzia, verosimilmente molto alti, non sono mai stati resi noti pubblicamente. Sono costi ingenti, non motivati peraltro dal fatto che la valutazione Anvur, oltre a essere ideologicamente orientata, è monca: i docenti universitari sono valutati solo per quello che pubblicano, non anche per la qualità e la quantità dell’attività didattica, gli impegni istituzionali che assumono, la cosiddetta terza missione (ovvero i rapporti con il territorio). È solo dopo circa sei anni di attività che l’Agenzia si sta attrezzando per valutare/quantificare e misurare anche queste attività. Lo farà presumibilmente con la logica punitiva, che è la filosofia di fondo che guida la sua azione.

A questa logica – è persino superfluo sottolinearlo – i docenti universitari, almeno quelli non allineati, dovrebbero opporsi. Possibilmente con forme di protesta che siano più incisive della sola sospensione di un appello di esami. Occorre, a tal fine, e per invertire radicalmente la rotta, la mobilitazione di un fronte ampio, che coinvolga le famiglie, gli studenti, i dottorandi e i dottori di ricerca, le tante figure del precariato dell’Università.

Guglielmo Forges Davanzati è professore associato di Economia politica all’Università del Salento