Il presidente del Consiglio ha detto più volte che la povertà si combatte con il lavoro e non con il reddito garantito. Nei vari paesi europei questo strumento è sempre condizionato alla ricerca e all’accettazione di un eventuale lavoro che servizi per il lavoro devono essere messi in grado di offrire (e non è il caso dei nostri). Per una serie sfortunata di condizioni sociali, familiari, di genere, di salute, geografiche, vi sono persone che, pur lavorando, sono di fatto povere. Altre ci provano, ma incorrono in continue delusioni che minano l’orgoglio, la fiducia in se stessi, la speranza. E il mito delle politiche attive, in base al quale basta qualche buon corso di formazione per rendere occupabile chiunque, le fa sentire ancora più inadeguate.

L’esperienza ci insegna che sopra i 50 anni anche persone che sarebbero facilmente occupabili, faticano molto a trovare un lavoro, se non accettando condizioni molto al di sotto delle proprie competenze; e ogni mese in più di disoccupazione riduce le possibilità. La verità è che non si fanno politiche per far crescere la domanda del lavoro, perché si ha una fiducia cieca nelle presunte virtù salvifiche del mercato. E anche quando il numero dei posti di lavoro cresce, se ne avvantaggiano i più occupabili, quelli che hanno migliori relazioni sociali, che vivono in luoghi più dinamici. In questo senso, appare sensata la relazione di accompagnamento della proposta formulata nei giorni scorsi dall’Inps, consistente nell’istituzione di un reddito minimo garantito pari a euro 500 euro (400 nel 2016 e nel 2017) al mese per una famiglia con almeno un componente ultracinquantacinquenne. Il trasferimento “prende come riferimento la famiglia, intesa come nucleo che condivide la stessa abitazione”.

Per reperire le risorse, l’Inps immagina innanzitutto una rimodulazione delle prestazioni accessorie, come assegni  sociali, maggiorazioni, integrazioni al minimo, quattordicesima e importi aggiuntivi, parametrati all’Isee e declinanti a partire da 32 mila euro di parametro, arrivando a zero sopra i 37 mila (circa 55 mila euro lordi per una coppia). Qui si inserisce un criterio di equità redistributiva non tra ricchi e poveri, ma tra chi non riceve niente e chi invece riceve qualche prestazione in più del necessario. È un discrimine politico, ovviamente.

Asimmetrie nei trattamenti previdenziali 
Un merito della proposta Inps sta nel fatto che riconosce ufficialmente un fenomeno che era già apparso chiaro dalla lettura dei dati Istat: la riforma Fornero, rimandando di colpo il pensionamento di centinaia di migliaia di lavoratori, ha aggravato la disoccupazione della fascia giovanile. Il governo Monti era consapevole di questo effetto negativo, ma la decisione fu presa, in tempi di tempesta finanziaria, per rendere sostenibile il sistema pensionistico nel più lungo periodo. A meno che non si voglia operare a carico delle generazioni future per ridurre questa rigidità, occorre quindi trovare le risorse. L’Inps propone di guardare alle iniquità distributive del sistema previdenziale.

A oggi, permangono ancora forti asimmetrie nei trattamenti previdenziali concessi a diverse categorie di pensionati. Queste differenze non sono fondate su diversi livelli contributivi. Al contrario, riflettono asimmetrie spesso macroscopiche nei tassi di rendimento garantiti ai contributi versati da alcune coorti e categorie specifiche di lavoratori. In un sistema a ripartizione, questi trattamenti di favore si ripercuotono su tutti gli altri contribuenti. Molti fondi speciali sono confluiti nell’Inps con bilanci già in rosso e avendo già eroso il loro patrimonio. Hanno così finito per gravare pesantemente sul bilancio dell’istituto. Un ragionamento analogo può essere fatto per l’integrazione della retribuzione decisa in passato per i vitalizi dei parlamentari, che – secondo il dispositivo qui presentato – dovranno d’ora in poi essere chiamati col loro vero nome. Si tratta, a giudizio dell’Inps, “di vere e proprie pensioni, sottratte alle riforme previdenziali degli ultimi 25 anni”.

Dal retributivo al contributivo 
In Italia vi sono oggi 23 milioni di lavoratori e 16 milioni di pensionati che percepiscono 21 milioni di trattamenti previdenziali. Il sistema a ripartizione, in base al quale uno poteva andare in pensione sulla base di un diritto economico a suo vantaggio, ma a carico di altri lavoratori, a prescindere dai contributi effettivamente versati, non è più difendibile, e rischia di scavare un solco tra la generazione di coloro che non avevano ancora 18 anni di contributi al momento della riforma del 1995 – e perciò avranno pensioni calcolate solo sui contributi versati – e i più anziani, specialmente quando hanno beneficiato di trattamenti di favore, cioè non certamente operai o impiegati. Questo solco è aggravato dal fatto che il mercato del lavoro dei giovani appare oggi più povero, più diseguale e privo di tutele, rispetto a quello nel quale si sono inseriti i loro genitori. Le tante riforme dal 1919 a oggi, del lavoro, della previdenza e del fisco, dimostrano che non esistono diritti acquisiti o un presunto patto tra Stato e lavoratori sui trattamenti futuri. L’unico diritto che si dovrebbe considerare acquisito è quello acquistato da ciascuno con il versamento dei contributi, purché il rendimento sia lo stesso.

La riforma Fornero ha passato tutti i lavoratori al sistema contributivo a partire dal gennaio 2012, ma ciò non basta. Restano infatti aperti diversi problemi di politica sociale: le pensioni di coloro che, per una serie di motivi legati alla loro carriera retributiva, alla perdita del lavoro, a problemi di salute o altro, non hanno cumulato il minimo necessario per vivere. Per questi esiste già l’integrazione al minimo, ma è troppo scarsa. Bisogna poi tener conto delle nuove generazioni di lavoratori, troppo spesso intrappolati in lavori con contratti precari o costretti a una falsa libera professione, che hanno carriere intermittenti e versamenti discontinui. Queste persone non stanno cumulando abbastanza da avere una speranza di una pensione dignitosa: ciononostante, su di esse il progetto dell’Inps dice poco, e la politica finora ha offerto chiacchiere, ma non soluzioni. Costoro rischiano di essere i poveri del futuro, se non agiamo fin da ora.

L’Inps va a cercare le risorse per una copertura più equa, avanzando una proposta politica (anche se non sarebbe un suo compito) che non riguarda solo la conversione dei vitalizi in pensioni contributive, ma entra nel merito del ricalcolo dei trattamenti non contributivi, e traccia due righe. “A chi ha redditi pensionistici elevati (superiori ai 5 mila euro lordi al mese), in virtù di trattamenti molto più vantaggiosi di quelli di cui godranno i pensionati del domani, viene richiesto un contributo equo dal punto di vista attuariale, ricalcolando le loro pensioni in base al rapporto fra i coefficienti di trasformazione vigenti per il sistema contributivo (ricalcolati all’indietro per ogni anno di decorrenza) per la loro età alla decorrenza della pensione e quelli all’età normale di pensionamento ottenuta applicando all’indietro negli anni gli aggiustamenti automatici all’aspettativa di vita previsti dalla normativa vigente”.

Non solo. “Ai pensionati con importi medio-alti (tra i 3.500 e i 5 mila euro al mese) e attuarialmente non in linea con i contributi versati – prosegue l’Inps –, viene richiesto un contributo più dilazionato nel tempo, limitandosi a mantenere costanti in termini nominali (cristallizzando gli importi) le loro pensioni fino a quando queste raggiungeranno la pensione ricalcolata come sopra, senza riduzioni nominali negli importi delle loro pensioni”. A chi scrive la proposta appare moderata. L’istituto dice che toccherebbe in modo più rilevante i 230 mila pensionati ad alto reddito e in piccola misura altri 250 mila soggetti con trattamenti speciali, più 4 mila vitalizi. Anche il presidente del Consiglio ha detto che gli appare ragionevole, ma ha aggiunto che non è il caso di farla ora, perché incrinerebbe la principale parola d’ordine di questo esecutivo: fiducia. Omettendo di spiegare però perché i cinquantacinquenni senza lavoro, i giovani disoccupati, oppure tutti i lavoratori che vedono con preoccupazione il loro modesto trattamento pensionistico futuro, non incrinerebbero il clima di fiducia, mentre questi pensionati di reddito medio-alto invece sì.

È invece facile prevedere che la discussione sarà più difficile riguardo ai coefficienti di riduzione del trattamento da decidere per chi volesse anticipare il tempo del suo pensionamento rispetto alla riforma Fornero. Un mero calcolo di parità economica non terrebbe conto di alcuni benefici per la collettività: favorire l’ingresso dei giovani (purché questi pensionati smettano di lavorare) e agevolare il ricambio generazionale nelle imprese e nelle pubbliche amministrazioni. Sarebbe singolare una decisione come quella di distribuire a pioggia 24 mila euro di incentivi triennali per promuovere il nuovo tipo di contratto a tempo indeterminato e, nel contempo, non dare nessun valore economico al ricambio generazionale.

*Università di Urbino