La teoria economica dominante (mainstream) si fonda sulla convinzione in base alla quale un’economia di mercato deregolamentata, popolata da agenti perfettamente razionali e perfettamente informati, tende spontaneamente a una condizione di equilibrio, caratterizzata dal pieno ed efficiente impiego dei fattori produttivi. In prima battuta, sembrerebbe di trovarsi di fronte a una rappresentazione caricaturale delle dinamiche macroeconomiche in corso, soprattutto se si considera che questo approccio continua a essere dominante a distanza di 10 anni dallo scoppio della più lunga e intensa crisi economica nella storia del capitalismo.

Le ragioni dell’incredibile impermeabilità dell’ortodossia vanno probabilmente ricercate nella sua capacità di depoliticizzare il discorso economico. Il mainstream si prefigge, infatti, di fare della teoria economica una scienza nell’accezione della Fisica teorica e di laboratorio. In tal senso, esso è essenzialmente un metodo. Definirlo, come spesso si fa, liberista o neoliberista può apparire fuorviante, se non altro perché sono relativamente pochi gli studi esplicitamente finalizzati a “dimostrare” la superiore efficienza di un’economia di mercato deregolamentata.

Proliferano, per contro, pubblicazioni di natura puramente empirica, che fanno uso abbondante dell’econometria, nei quali l’oggetto della ricerca non è pertinente al campo d’indagine della teoria economica, almeno nell’accezione classica (ovvero: l’indagine sui meccanismi che presiedono l’accumulazione e la distribuzione del reddito). Si tratta del cosiddetto imperialismo dell’economics, per il quale l’economista ritiene di poter occuparsi di ogni problema di scelta e di poter verificare empiricamente ogni fenomeno che attiene alla sfera sociale.

Sono probabilmente pochi gli economisti, tra quelli che si riconoscono in tale orientamento, che hanno piena consapevolezza della sostanziale inutilità – a fini esplicativi, previsionali e normativi – di questo modo di fare teoria economica. Poiché questo orientamento è egemone, e poiché, per conseguenza, le maggiori riviste di settore accolgono esclusivamente articoli “scientifici” che si uniformano al metodo che si considera l’unico scientifico, appare pressoché scontata la scelta (spesso inconsapevole, soprattutto per le giovani generazioni) di conformarsi.

Scontata e anche “razionale”, se si intende far carriera universitaria. In Italia, negli ultimi decenni, questo processo di superamento della teoria economica nella direzione della misurazione senza teoria è avvenuto con estrema rapidità, attraverso l’importazione di teorie economiche statunitensi (spesso superate nello stesso Paese d’origine), ed è stato finalmente ratificato normativamente attraverso l’Agenzia nazionale di valutazione della ricerca (Anvur) e la sua selezione di riviste di classe A, le sole sulle quali pubblicare ai fini della valutazione e dell’avanzamento di carriera in Università (utile ricordare che nell’elenco di queste riviste – oltre 100 – non c’è quasi nessuna che, né nella denominazione, né nella declaratoria, si richiami a Marx, Sraffa, Keynes o ad altri autori ai quali riferire un’analisi economica non conformista).

Se questa è la premessa, è facile intuire le ragioni che fanno del libro di Roberto Romano e Stefano Lucarelli, “Squilibrio. Il labirinto della crescita e dello sviluppo capitalistico (Roma: Ediesse, 2017, pp. 218, 16 euro) un libro importante. Perché prova a destituire di fondamenta il discorso dominante proprio a partire dal metodo e a partire, in particolare, da una considerazione pienamente condivisibile: “Senza squilibrio non c’è sviluppo” (p. 17). Gli autori recuperano innanzitutto l’approccio classico lato sensu (Smith, Ricardo, Marx, Keynes, Schumpeter, Minsky), concentrando l’attenzione sulle determinanti dei cambiamenti strutturali, ovvero dei “salti” tecnologici e delle modifiche dei pattern di consumo. In secondo luogo, recuperano anche una lunga elaborazione teorica specificamente italiana, la cui caratteristica essenziale sta(va) nel concepire il capitalismo come una formazione sociale intrinsecamente instabile, conflittuale, dinamica, portatrice di fluttuazioni cicliche e crisi, ovvero strutturalmente in disequilibrio.

La prefazione di Paolo Leon – uno fra i maggiori economisti italiani della seconda metà del Novecento, scomparso l’11 giugno 2016 – testimonia questo “passaggio di consegne”. E la sua testimonianza illumina sulla perdita di un immenso patrimonio culturale che i nostri economisti hanno dato “all’avanzamento delle conoscenze” nella teoria economica e che hanno lasciato in eredità ai pochi, pochissimi, economisti non allineati oggi attivi. L’esposizione parte da considerazioni di natura propriamente teorica, per poi utilizzarle per un’interpretazione delle trasformazioni del capitalismo contemporaneo e delle specificità della crisi italiana.

Sul piano teorico, e in estrema sintesi, gli autori propongono di leggere lo sviluppo capitalistico come fondamentalmente determinato da cambiamenti tecnologici endogeni, con effetti sulla struttura produttiva e sui modelli di consumo, secondo traiettorie non bilanciate e in continuo disequilibrio: “I cambiamenti legati all’introduzione di nuove tecniche di produzione generano innovazioni istituzionali e adeguamenti sociali, senza i quali non sarebbe possibile governare il particolarissimo processo ciclico insito nel capitalismo” (p. 27). In particolare, l’avanzamento tecnico non è neutrale, per gli effetti che genera, né rispetto ai consumi (i quali appunto non solo variano in quantità, ma si modificano in qualità al modificarsi della composizione merceologica della produzione e al variare dei redditi reali), né rispetto alle istituzioni (essendo associato a modificazioni normative e degli abiti mentali).

I cambiamenti tecnologici, a loro volta, sono fatti dipendere essenzialmente da meccanismi riconducibili alla divisione del lavoro e alla kaldoriana funzione del progresso tecnico (pp. 32 ss.) e, in linea con Kaldor, non sono diffusi in modo omogeneo, né fra settori produttivi, né fra aree geografiche, generando effetti di polarizzazione. Sul piano della politica economica, gli autori ritengono oggi insufficiente avvalersi dei tradizionali strumenti keynesiani di incentivo agli investimenti per il sostegno della domanda aggregata. Tali strumenti, dal loro punto di vista, “non rappresentano più una condizione sufficiente per garantire una crescita stabile del sistema economico (p. 45).

Il problema che essi individuano sta nella possibilità che l’aumento della produzione non incontri una domanda qualitativamente omogenea: “La crescita del reddito ha modificato stili di vita e consumi delle famiglie, mentre la produzione ha soddisfatto molti dei bisogni che una volta erano insufficienti” (p. 45). Seguendo i pionieristici contributi di Paolo Leon e Luigi Pasinetti sulle determinanti dei consumi, gli autori propongono una originale rivisitazione della Legge di Engel, per la quale la qualità dei beni consumati varia al variare del reddito.

Romano e Lucarelli suggeriscono di “ripensare il concetto di programmazione dell’attività produttiva”, rifacendosi alla categoria dell’anticipo della domanda. In sostanza, si richiede un nuovo intervento attivo dello Stato che non sia meramente relegato a interventi di sostegno della domanda nel breve periodo – come peraltro suggerito in ambito neo-keynesiano – ma che impatti sulla struttura produttiva e che contribuisca direttamente a generare cambiamenti strutturali attraverso il finanziamento delle innovazioni e il sostegno di produzioni che soddisfino i nuovi bisogni.

Un libro che ha innanzitutto il pregio di essere un libro di economia. Per quanto possa sembrare strano, anche a ragione del fatto che i meccanismi di valutazione disincentivano la stesura di monografie, scrivere in Italia un libro di teoria economica è di per sé segno di anticonformismo. Ma non solo. Un libro che tratta temi di sicuro interesse, sia sul piano dell’analisi economica, sia con riferimento alle prescrizioni di politica economica, sia anche con riferimento alle specificità della crisi italiana (pp.181-207), con un continuo confronto con teorie elaborate da economisti del passato e recependo la migliore tradizione di studi economici (da Leon a Sylos Labini, a Graziani a Pasinetti).

Guglielmo Forges Davanzati è professore associato di Economia politica all’Università del Salento