Quando nel 2008 scoppiò la crisi economica e finanziaria, molti autorevoli economisti individuarono nelle forti diseguaglianze prodotte dal neoliberismo uno dei principali fattori scatenanti. Sicché, per provare a uscirne fuori, una ricetta sarebbe consistita nell’introduzione di politiche economiche espansive in grado di ridurre quelle stesse diseguaglianze.

Purtroppo, a oltre sei anni dall’inizio della crisi, è difficile dire che sia andata così. Non solo, infatti, le difficoltà economiche non sembrano superate, ma quel che più colpisce è che le diseguaglianze sono aumentate. Un servizio realizzato da Repubblica, autore Federico Fubini, apparso il 19 gennaio, condotto su dati della Banca d’Italia e della rivista Forbes certifica che nel nostro paese, già nel 2013, le dieci famiglie con i maggiori patrimoni erano più ricche del 30% degli italiani (e stranieri) più poveri. Per esse, dal 2008, si è realizzato “un balzo in avanti patrimoniale di quasi il 70%, compiuto mentre l’economia italiana balzava all’indietro di circa il 12%”.

Fin qui l’Italia. E il resto del mondo? In questo caso la risposta diventa complessa, visto se non altro il grande numero di dati. Uno strumento utile per rispondere a questo interrogativo può essere un volume diventato ormai un best seller: Il Capitale nel XXI secolo, dell’economista francese Thomas Piketty (Bompiani, Milano, 2014, pp. 960, euro 22,00).

A dispetto del titolo va detto subito che Karl Marx non c’entra nulla. E non soltanto perché l’autore non è un marxista, ma soprattutto per l’ispirazione di fondo del volume. “Il Capitale”, quello di Marx, aveva come sottotitolo “Per la critica dell’economia politica” e, in quest’ottica, oltre a criticare i grandi economisti liberali e il pensiero utilitarista, svelava i meccanismi del profitto, le sue contraddizioni e il modo con il quale il capitalismo trasformava la società e gli individui. La prospettiva era quella di un superamento del capitalismo medesimo. Al centro della riflessione di Piketty, invece, non c’è il problema del superamento del capitalismo, che non è mai messo in discussione. L’obiettivo, semmai, è quello di una possibile riforma che aiuti a migliorare il funzionamento del capitalismo correggendo alcuni dei disequilibri generati dalle sue stesse dinamiche.

Ma andiamo con ordine. Piketty raccoglie un numero enorme di dati economici, relativi ai principali paesi più ricchi, nel corso di oltre due secoli e ne studia l’evoluzione in relazione ai cambiamenti storici. L’obiettivo dichiarato è quello di comprendere quali sono le disuguaglianze che vengono generate dal capitale e vedere che influenza esse hanno sia nella società che nel funzionamento economico stesso.

La sua analisi si fonda essenzialmente su due grandi fonti storiche di dati. La prima è quella relativa ai redditi e alla disuguaglianza della loro distribuzione; la seconda riguarda i patrimoni, la loro distribuzione e il rapporto tra patrimoni e redditi. Il volume è diviso in quattro parti. Nella prima, di tipo più teorico, vengono definiti alcuni concetti generali utili a comprendere la differenza tra reddito e prodotto i cui rapporti sono meglio studiati nella seconda parte. Si badi che qui, come per tutto il volume, con capitale si fa riferimento “agli attivi non umani che possono essere posseduti e scambiati nel mercato”. Sono dunque compresi, in questa definizione, sia il capitale immobiliare sia quello finanziario e professionale (ad esempio brevetti e macchinari). La terza parte, che è il cuore dell’opera, è tutta dedicata allo studio delle disuguaglianze in relazione a redditi, salari, patrimoni e così via. Infine, nella quarta parte l’autore avanza alcune proposte che possono servire a regolare il capitale.

Negli anni cinquanta, l’economista Simon Kuznets aveva analizzato le classi di reddito negli Stati Uniti ed era giunto alla conclusione che lo sviluppo economico avrebbe progressivamente ridotto le diseguaglianze, a prescindere da interventi di tipo politico. Piketty, in sostanza, prova a verificare oggi l’interpretazione proposta da Kuznets, ma giunge a conclusioni molto diverse. La prima, e più importante, è che per comprendere la distribuzione delle disuguaglianze prodotte dal capitale non si può prescindere dal contesto storico e dalle decisioni politiche, che hanno un’influenza determinante. “La prima lezione – scrive – è che occorre diffidare, in una materia del genere, di ogni determinismo economico: la storia della distribuzione della ricchezza è sempre una storia profondamente politica, che non si esaurisce nell’individuazione di meccanismi puramente economici”.

La seconda interpretazione
, collegata alla prima, è che la tendenza descritta da Kuznets valeva per il periodo della guerra fredda negli Stati Uniti e per i cosiddetti trent’anni gloriosi in Europa. Ma si tratta di eccezioni, non della regola. Infatti – e qui sta uno degli argomenti principali del volume –, esaurita quella fase storica, a partire dagli anni ottanta le diseguaglianze sono cominciate a salire vertiginosamente riportando di fatto, sotto questo aspetto, il capitalismo a una situazione ottocentesca nella quale i grandi patrimoni prevalevano sulla produzione economica. È come se si stesse ritornando all’epoca descritta dai romanzi di Balzac e Austen – spesso richiamati dall’autore stesso – nella quale la mobilità sociale non esisteva e l’unico modo per ascendere nella scala sociale non era né il merito né lo studio, ma solo l’appartenenza a classi privilegiate per via della proprietà o la possibilità di entrarvi attraverso il matrimonio.

A cosa era dovuta l’eccezione? Per l’economista francese, gli avvenimenti che si sono succeduti dal 1914 al 1945 (due guerre mondiali e la grande depressione del 1929), con le loro ricadute sull’economia, sia nella produzione che negli aspetti monetari, hanno avuto un effetto livellatore che ha ridotto in maniera consistente la forte disparità nel rapporto tra patrimonio e produzione. Oggi la situazione è tornata a invertirsi con ricchi sempre più ricchi e poveri sempre più poveri. Se si considera la fetta superiore della popolazione con i redditi più alti, ossia lo 0,1% più ricco, si registrano cifre altissime. Negli Stati Uniti esso possiede il 10% del reddito nazionale ed è cresciuto anche nelle altre aree economiche rilevanti come Regno Unito, Europa continentale e Giappone, seppur con percentuali più basse.

L’assunto dell’autore sta nella formula secondo la quale la rendita è sempre maggiore della crescita economica e, secondo le sue previsioni, questa asimmetria dovrebbe acutizzarsi negli anni a venire. Secondo i dati esposti, calcolati dall’antichità e proiettati fino al 2100, solo in rare ed eccezionali occasioni il rendimento puro da capitale è stato inferiore alla crescita economica, ma nel futuro la tendenza si invertirà senz’altro.

Per ovviare a ciò, nella parte finale del libro, Piketty avanza alcune soluzioni tra cui in particolare l’introduzione di una sorta di tassa patrimoniale mondiale, in una percentuale molto contenuta, diversa a seconda dell’entità dei patrimoni. Si tratta, per ammissione dello stesso autore, di un rimedio utopico in quanto presupporrebbe una totale collaborazione di tutti gli Stati, compresi quelli che ospitano i paradisi fiscali. Inoltre, questa imposta mondiale sui patrimoni, più che produrre delle effettive ricadute sulle diseguaglianze, avrebbe alla fine carattere simbolico; e questo perché si ridurrebbe in concreto a una specie di tassa di registrazione dei patrimoni stessi. Specifica, infatti, Piketty che “il compito principale dell’imposta sul capitale non è quello di finanziare lo Stato sociale, quanto di regolare il capitalismo”.

Uno degli aspetti che più colpiscono del volume è il fatto che Piketty, pur studiando in maniera approfondita questi disequilibri, non prenda posizione sulla disuguaglianza alla quale non è mai contrario per ragioni valoriali. Persino nella crisi del 2008 si cercano cause diverse dalle forti disuguaglianze generate dal neoliberismo. La sua preoccupazione principale non è la redistribuzione intesa come elemento di giustizia sociale. La disuguaglianza è vista solo come elemento nocivo allo sviluppo economico: se la rendita è più vantaggiosa della produzione, viene meno il fattore propulsivo per il capitale e sul lungo periodo ciò comporta un rallentamento generale della produzione economica.

In questo senso, oltre a non essere marxista, la prospettiva dell’autore non è neanche di sinistra; semmai s’inserisce in un filone più liberale. Del resto, l’intervento pubblico è concepito come fattore di supporto all’economia, non il contrario. Permane, perciò, una visione nella quale lo Stato è un mezzo del mercato che resta il fine. Una prospettiva tutt’altro che nuova. Sarà anche per questo motivo che il libro è piaciuto molto agli osservatori del mondo anglosassone.