Secondo il Weso-World Employment and social outlook 2015 (“Prospettive occupazionali e sociali nel mondo 2015”) dell’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo), in tutto il mondo, solo poco più di un quarto dei lavoratori ha un rapporto stabile e a tempo pieno, mentre il lavoro dipendente, nonostante sia in aumento, rappresenta solo la metà dell’occupazione globale, ovviamente con significative variazioni da regione a regione.

Il rapporto dell’Ilo, dal significativo titolo “The changing nature of jobs” (“Come cambiano i lavori”), sarà presentato oggi (27 ottobre), dalle 10 alle 14, nella sede nazionale della Cgil, in corso d’Italia 25. In esso si afferma che nei paesi in cui i dati sono disponibili (le stime coprono l’84 per cento della manodopera globale), i tre quarti dei lavoratori hanno contratti temporanei o a breve termine, o lavorano nel settore informale, spesso senza alcun tipo di contratto.

Oltre il 60 per cento dell’insieme dei lavoratori non ha un contratto: la maggior parte di essi si trova nei paesi in via di sviluppo e svolge un lavoro autonomo o contribuisce a un’attività familiare (senza retribuzione). Tra i lavoratori dipendenti, concentrati nelle economie avanzate, meno della metà (il 42 per cento) ha un contratto a tempo indeterminato. Ovviamente, le differenze sono notevoli tra le diverse aree del mondo, tra economie avanzate e in via di sviluppo: nei paesi industrializzati e nell’Europa centrale e del Sud-Est, circa 8 lavoratori su 10 sono lavoratori dipendenti; in Asia del Sud e nell’Africa subsahariana, invece, se ne contano solo 2 su 10.

Un’altra tendenza rilevata dal rapporto, in particolare nelle economie avanzate, è l’aumento del lavoro a tempo parziale, soprattutto fra le donne. Nella maggior parte dei paesi con dati disponibili, tra il 2009 e il 2013 i rapporti di lavoro definiti da questa tipologia contrattuale sono aumentati più di quelli a tempo pieno. Negli 86 paesi esaminati, che rappresentano il 65 per cento dell’occupazione mondiale, oltre il 17 per cento delle persone occupate svolge un lavoro a part time a meno di 30 ore settimanali. Le donne impiegate a tempo parziale sono il 24 per cento, rispetto al 12,4 per cento di uomini.

“Questi nuovi dati indicano una crescente diversificazione del mondo del lavoro. In alcuni casi, le forme atipiche possono aiutare le persone ad accedere al mercato del lavoro. Ma questi nuovi cambiamenti riflettono anche la diffusione di un’insicurezza che colpisce oggi numerosi lavoratori in tutto il mondo – osserva Guy Ryder, direttore generale dell’Ilo –. Lo spostamento che osserviamo del rapporto di lavoro tradizionale verso forme atipiche di occupazione è, in molti casi, associato a un aumento delle disuguaglianze e della povertà in diversi paesi”.

Una tendenza che rischia di prolungare il circolo vizioso caratterizzato da una domanda globale debole e da una lenta creazione di posti di lavoro, fenomeni che hanno interessato l’economia mondiale e diversi mercati del lavoro durante tutto il periodo successivo alla crisi. A riprova di ciò, a livello mondiale, a partire dal 2011, la crescita dell’occupazione è rimasta ferma intorno all’1,4 per cento l’anno, mentre – a partire dal 2008 – nei paesi industrializzati e nell’Unione europea,  è stata in media dello 0,1 per cento l’anno, contro lo 0,9 per cento tra il 2000 e il 2007.

E d’altra parte, i 201 milioni di disoccupati nel mondo (2014), se non costituiscono più il peggior picco dall’inizio della crisi, sono ancora comunque 30 milioni di più che nel 2008, mentre la lenta crescita dell’economia globale non è in grado di realizzare i 40 milioni di posti di lavori annui in più necessari per assorbire i nuovi ingressi nel mercato del lavoro. In questo contesto, si apprende sempre dal rapporto dell’Ilo, forte è la discriminazione di genere. Nel 2014, quasi il 73 per cento del divario occupazionale mondiale era dovuto a un deficit dell’occupazione femminile, che costituisce solo il 40 per cento della manodopera mondiale.

L’impatto diretto del divario occupazionale mondiale sulla massa salariale aggregata è considerevole: corrisponde a circa 1.218 miliardi di dollari di perdite di salari in tutto il mondo, cioè circa l’1,2 per cento del totale della produzione mondiale annua, e a circa il 2 per cento del totale del consumo mondiale. Oltre alla riduzione della massa salariale dovuta al divario occupazionale, conseguenze importanti sulla massa salariale aggregata ha avuto anche il rallentamento della crescita dei salari. L’Ilo stima che, nelle economie industrializzate e nell’Unione europea, nel 2013, il rallentamento della crescita dei salari abbia provocato una riduzione di 485 miliardi di dollari della massa salariale a livello regionale.

Come conseguenza della frammentazione e della precarietà dei lavori, le disuguaglianze di reddito sono in aumento o, comunque, rimangono elevate nella maggior parte dei paesi; una tendenza aggravata dalla diffusione di forme di lavoro temporaneo, dall’aumento della disoccupazione e dell’inattività. Un divario di reddito, quello tra i lavoratori a tempo indeterminato e quelli temporanei, che nell’ultimo decennio si è addirittura ampliato. Non solo. Nonostante siano stati compiuti progressi in termini di copertura pensionistica, la protezione sociale – in particolare i sussidi di disoccupazione – rimane praticamente riservata ai soli lavoratori a tempo indeterminato. Per i lavoratori autonomi, anche le pensioni sono scarse: nel 2013, a livello mondiale, il 52 per cento dei lavoratori dipendenti è iscritto a un sistema pensionistico, contro il 16 per cento dei lavoratori autonomi.

Cresce, secondo il rapporto dell’Ilo, il consenso sulla necessità di regolamentare il lavoro per proteggere i lavoratori – specie quelli atipici – da comportamenti arbitrari o ingiusti, e per garantire rapporti di lavoro formali tra datori di lavoro e lavoratori. Le leggi sulla protezione dell’occupazione si sono progressivamente rafforzate nel tempo, una tendenza comune nella maggior parte dei paesi e delle regioni. E tuttavia, in Europa, dall’inizio della crisi finanziaria nel 2008 abbiamo assistito a una generale riduzione della protezione del lavoro. Secondo Raymond Torres, direttore del dipartimento di ricerca dell’Ilo e principale curatore del rapporto che verrà presentato quest’oggi, “il problema fondamentale è quello di adattare la regolamentazione a un mercato del lavoro sempre più diversificato. Una regolamentazione adeguata contribuirà anche alla crescita economica e alla coesione sociale”. 

Il rapporto sfata anche la tesi neoliberista secondo la quale un mercato del lavoro “rigido” ostacolerebbe l’occupazione. Mentre non vi sono evidenze di questa ipotetica correlazione, alcune esperienze, in particolare in paesi in via di sviluppo, riscontrano un legame positivo tra protezione dei lavoratori e livelli di occupazione formale, mentre le politiche di austerità, di deregolamentazione del mercato del lavoro e di riduzione delle protezioni sociali in Europa, negli anni di rallentamento o recessione, non sono state in grado di aumentare e difendere l’occupazione.

* Fondazione Giuseppe Di Vittorio