Nel 1919 mondine e operai conquistarono l’orizzonte del Primo Maggio internazionale, le otto ore di lavoro. Un secolo dopo, al congresso della “loro” Cgil, quegli stessi soggetti rimarrebbero sconcertati: il modello temporale del lavoro (e della società) è ancora quello, semmai più flessibile e pervasivo nella vita personale. Il progresso ha generato molto pane, ricchezza materiale, peraltro mal distribuita, ma poche rose, quelle dimensioni di benessere, ben-vivere, che non si possono vendere e comprare.

I tempi di lavoro tornano ora nel dibattito sindacale e politico, imposti dalla realtà: in tutti i Paesi avanzati la riduzione degli orari pro capite è già in atto dagli anni ottanta. La domanda di lavoro è in diminuzione. Poiché però gli orari a tempo pieno sono stabili o addirittura in aumento, ad abbassare la “media del pollo” si moltiplicano i part time involontari e i lavoretti usa e getta di poche ore/giorni/settimane. L’evoluzione tecnologica ventura pare destinata ad amplificare tale tendenza, i pur necessari Piani del lavoro possono rallentarla (e i redditi di base forse alleviarla), ma certo non invertirla.

Eppure molti contratti recenti, nazionali e aziendali, hanno imposto a chi già lavora “troppo” di lavorare ancora di più, con aumenti degli orari settimanali (ferrovie, igiene urbana), taglio dei riposi ai neoassunti (commercio), meno pause e più straordinari obbligatori (metalmeccanici), premi subordinati a soglie di presenza. Non si è ancora compresa appieno la differenza con gli anni settanta: in quel contesto di produzioni di massa e piena occupazione, ridurre gli orari era una scelta di avanguardia per “liberare il tempo”, con ragioni più o meno folkloristiche, dal rifiuto del lavoro alla tutela della salute; oggi è diventata una necessità. In palio non ci sono le rose (che pure…), ma il pane per tutti.

Non basta ridurre gli orari: per milioni di persone devono al contrario aumentare. Serve allora nuova progettualità collettiva sulla distribuzione dei tempi e mobilitazione trasversale che la concretizzi in misure legislative e contrattuali. I nodi da sciogliere sono pochi, ma determinanti.

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1. Riduzione di orario a parità di salario (totem e tabù)
Irremovibile (e rassicurante) rivendicazione, è davvero la condizione sine qua non? La povertà dilaga tra disoccupati e forzati dei mini-lavori, mentre molti salariati hanno conservato e qualcuno accresciuto i propri redditi, talvolta con risorse pubbliche (defiscalizzazione premi di risultato, 80 euro). Distribuire lavoro – e quindi reddito – può allora giustificare modeste riduzioni salariali per chi beneficia di redditi medio-alti e andrà a “guadagnare” tempo. Lavorare 32 ore invece di 40 (-20 per cento) e guadagnare il 10 per cento in meno comporta un sostanzioso aumento della retribuzione oraria: appare un’eresia, o una truffa, solo nella gabbia concettuale capitalista, che non sa riconoscere il valore autonomo del tempo di vita (“il tempo è denaro”). Salvaguardia completa dei redditi bassi, gradualità temporale, armonizzazione dei part time preesistenti sono ovvi requisiti di equità.

C’è di più: una vasta platea ridurrebbe orario e salario se solo potesse farlo, per studiare, prendere i figli a scuola, concepirli, curarsi e curare, andare al mare. È il downshifting democratico, di chi non può mollare tutto per vivere in barca a vela. Il bello è che si può fare.

2. Per tutti e per qualcuno (accetta e bisturi)
I recenti accordi siglati dal sindacato tedesco Ig Metall prevedono la riduzione volontaria e temporanea dell’orario individuale da 35 a 28 ore, a fronte di condizioni soggettive definite (impegni di cura e studio), con parziale taglio del salario. Introducono anche la speculare (e criticabile) possibilità di lavorare di più, 40 ore. A prescindere dai dettagli, affrontano un tema chiave: non tutti i lavoratori hanno gli stessi bisogni, non tutti cercano le stesse risposte.

Occorre abilitare chi necessita o vuole lavorare di meno, estendendo molteplici istituti volontari, alcuni a costo zero, altri sussidiati: esigibilità soggettiva del part time lungo (superiore a 32 ore); turni ridotti (e stabili) di “prevenzione” patologie per dipendenti senior (esempio: over 60) o malati cronici; potenziamento dei congedi  parentali, di cura e di studio, nuovi congedi per attività culturali, artistiche e civiche; convertibilità in ferie/riposi aggiuntivi dei premi di risultato e altre voci retributive accessorie. Si tratta di chirurgia organizzativa, non esente da rischi, a cominciare da scelte individuali “spintanee” sotto pressione dell’impresa.  Ma è la terapia salva-vita per una vera conciliazione con il lavoro, che può solo fondarsi su bisogni individuali e diversi.

3. Lavorare meno, lavorare tutti, lavorare meglio (mito e realtà)
Inequivocabili evidenze statistiche documentano l’intuitiva correlazione tra orari ridotti e tassi di occupazione elevati, sebbene da 150 anni gli economisti liberali si esibiscano in tripli salti carpiati per negarla. Hanno però ragione su un punto: i benefici occupazionali non sono immediati e automatici, né possono essere imposti sulla carta. Il temuto aumento dei costi orari induce infatti le imprese a migliorare i propri processi organizzativi e investire in tecnologie labour saving, risparmiando così forza lavoro.

Analizzando micro e macro esperienze, ogni 100 ore “tagliate” solo 50 si traducono in nuova occupazione. Ma è anche questa una media del pollo, in alcuni settori le assunzioni saranno nulle o quasi, tanto più in fasi di scarsa domanda. È la ragione per cui non sono mai decollati i contratti di solidarietà espansiva, che impongono addirittura la corrispondenza 1:1 tra ore tagliate e assunzioni. In tutto ciò, la buona notizia è che ridurre gli orari fa bene anche alle imprese, stimolando l’innovazione e l’efficienza.

È l’esito delle 35 ore in Francia: gli occupati sono aumentati – direttamente – meno del previsto, in compenso il sistema-impresa nazionale si è radicalmente rinnovato e la crescita della produttività ha compensato di gran lunga i maggiori costi. Insomma, ci hanno guadagnato sia i lavoratori, sia gli azionisti, che prima paventavano le dieci piaghe d’Egitto. In Italia la produttività del lavoro è stagnante da tempo e si gioca una concorrenza al ribasso, fondata sul mero contenimento dei costi. Il capitalismo nostrano ha tutto da guadagnare da questo “spettro socialista”.

4. Legge o contratto (pizza o birra)
Nel 1997 il governo Prodi firmò con Rifondazione Comunista un accordo quadro per una legge sulle 35 ore, come in Francia. Insorse Confindustria, ma anche i sindacati confederali, con identiche argomentazioni: violazione dell’autonomia contrattuale delle parti sociali, minaccia alla stagione della concertazione. Sergio D’Antoni, l’allora segretario generale Cisl, chiamò perfino alla lotta comune sulle pagine de il manifesto: “La legge sulle 35 ore è sbagliata e se ci mobilitiamo tutti, sindacati e imprenditori, credo che non si farà”. Amen. Pochi mesi prima era invece stato approvato il pacchetto Treu, il piano inclinato della precarietà.

Oggi è più evidente che le parti sociali non hanno lo stesso potere contrattuale. Non solo: le nuove tecnologie complicano le possibilità di intervento sindacale nell’organizzazione del lavoro. Lo Stato, la legge, serve appunto a riequilibrare i rapporti di forza e indirizzarli verso l’interesse collettivo. È indispensabile una nuova cornice normativa, che la contrattazione dovrà poi declinare nei diversi contesti produttivi.

Riduzioni di orario limitate e progressive possono essere subordinate a risultati o, molto meglio, obiettivi di produttività, nazionali, settoriali e aziendali. In estrema sintesi: se si conviene che il valore prodotto in un’ora di lavoro dovrà aumentare del 5% in tot anni, l’orario potrà diminuire da subito della stessa misura, come stimolo a innovazione e investimenti. Servirebbe però una programmazione a lungo termine condivisa e aggiornata da tutti i soggetti coinvolti, governo, imprese e sindacati.

Strumento più immediato e ambizioso è la leva fiscale (e contributiva): si può incentivare la transizione progressiva a orari ridotti nell’arco di alcuni anni, poniamo una legislatura. Non serve fissare un orario-obiettivo uguale per tutti (35 ore), piuttosto una “fascia oraria conveniente” (25-35 ore), per la quale gli oneri fiscali saranno via via più favorevoli. Viceversa, orari superiori (alle 35) rimarrebbero possibili, ma sempre più onerosi. Perfino per i dipendenti, per scoraggiare gli straordinari (l’esatto opposto della defiscalizzazione).

Anche orari inferiori (alle 25) potrebbero costare un po’ di più, per limitare i mini-lavori. Garantita così la libertà d’impresa, la contrattazione avrà piena autonomia nell’adozione dei modelli più idonei in ogni settore e azienda: 35 ore orizzontali, settimana corta di 32 ore, otto ore giornaliere con riposi compensativi ecc.

Le misure e l’efficacia di un auspicabile Piano nazionale dei tempi di lavoro saranno determinati dalla politica economica generale. Vincoli ideologici (austerity) e internazionali (trattati europei, “mercati” finanziari) non sono alibi di inazione, semmai rendono più urgenti nuovi/vecchi affascinanti orizzonti di società giusta e vita bella.