Nel silenzio abituale dei custodi della Costituzione, nell’indifferenza dei media unificati, nell’obbedienza passiva della maggioranza dei parlamentari, la democrazia rappresentativa sta cambiando volto. Prima ancora dell’Italicum e delle riforme costituzionali approvate con i soli voti del Pd e ad aule deserte, la figura di una democrazia basata sul Parlamento, sulla separazione dei poteri, sui partiti è già un lontano ricordo.

Che il sindaco di Roma debba cambiare stile e capacità di governo è una verità incontrovertibile. Meno rassicurante, per gli equilibri di una Repubblica che non sia delle banane, è che a minacciare la deposizione del sindaco sia il presidente del Consiglio. Lo stesso premier che con giochini, forzature e coperture, consente alla Campania di avere un governatore fantasma e a sottosegretari inquisiti di rimanere al loro posto, ordina il fuoco al plotone di esecuzione convocato contro il sindaco della capitale.

La coincidenza tra la carica di presidente del Consiglio e quella di segretario del partito di maggioranza sta alterando in profondità le strutture costituzionali. Non può essere il titolare di Palazzo Chigi a decidere la sorte del Campidoglio in base ad argomenti squisitamente politici (la possibilità di salvare il potere capitolino inserendo le elezioni romane in una tornata ritenuta più favorevole e che nel 2016 coinvolgerà altre grandi città). Questo miscuglio tra calcoli di partito e funzioni istituzionali non può essere tollerato in una democrazia che conservi un minimo di dignità.

Ma il modello di politica che oggi domina è del tutto antitetico rispetto alle esigenze di una democrazia moderna. Il fatto che un presidente di Regione sia anche segretario regionale del partito (o persino vicesegretario nazionale del Pd) è un indicatore di mancanza completa di ogni senso delle istituzioni. Avanza una democrazia opaca, con potenti notabili che non assegnano alcun ruolo autonomo al partito (non c’è segretario regionale o federale del Pd che non sia anche governatore o parlamentare). E questo comporta, al tempo stesso, una carenza di autonomia delle istituzioni (piegate a calcoli partigiani) e una soppressione brusca di ogni forma partito collegata con la società civile (se non sei un ricco parlamentare non puoi fare politica).

Il senso del governo come comando, che adotta i gazebo come fonte di legittimazione, e allontana il vincolo di programma che si stabilisce tra deputati e corpo elettorale al momento del voto, produce esiti paradossali e ha risvolti antidemocratici. I deputati del Pd sono stati eletti con un programma “Italia Bene Comune” che non prevedeva l’Italicum, la buona scuola, il Jobs Act.

A quelle pagine i deputati devono la loro legittimazione, il loro mandato. Non ad altro: i gazebo sono una procedura privata, non sostituiscono i seggi elettorali, che sono l’unica fonte di un potere pubblico. Il governo inventa invece un suo programma, distante in maniera abissale da quello concordato con gli elettori, e lo impone con raffiche di voti di fiducia (il solo record assoluto che l’attuale esecutivo possa vantare).

Un’alterazione così profonda, prolungata e sistematica della democrazia parlamentare produce solo la scatto di rivolta di singoli deputati del Pd, che con dignità abbandonano un partito ormai sfigurato, che calpesta decenni di cultura costituzionale e di idealità della sinistra. E gli altri deputati stanno a guardare, in attesa di essere svegliati dal loro lungo sonno dogmatico solo dall’immenso rumore che produrrà lo schianto di questa triste avventura.

È difficile dire se è più inquietante tale deformazione della democrazia, che a passo veloce distruggerà tutto, o lo spirito di truppa di anime fragili che non condividono la torsione renziana, ma in aula si adeguano sempre al volere insensato del loro “caporale di ventura”.