Per merito della lettera che Susanna Camusso ha inviato nelle scorse settimane ai segretari generali di Cisl e Uil il tema dell’unità sindacale, a lungo rimosso o disprezzato, è tornato a non essere più un tabù. Per una stagione ormai lunga, dai primi anni del nuovo secolo, l’unità sindacale – che in precedenza rivestiva il ruolo di richiamo taumaturgico – è sembrata un reperto del passato, travolta com’era dalle divisioni tra le confederazioni. Non citata dal mondo sindacale. Ma anche evaporata dall’immaginario degli intellettuali che avevano contribuito a edificarne il mito.

A onor del vero, va anche detto che alcune, sporadiche ricerche avevano mostrato attraverso dati empirici che negli ultimi 15 anni la forza attrattiva dell’unità si andava riducendo, ma nonostante ciò restava elevata tra i lavoratori: passando da essere l’item principale delle domande indirizzate alle loro leadership, a una delle voci comunque prioritarie nelle loro aspettative. Per la base dei lavoratori “semplici”, spesso non iscritti, esso non si poneva solo come un obiettivo di natura generale: necessario per far contare di più il movimento sindacale. Ma si trattava anche e in primo luogo di una necessità pratica: ai più risultavano incomprensibili – e spesso pretestuose – le distinzioni tra le tre confederazioni.

Come effetto dell’iniziativa della Cgil qualche cosa si è mosso. Dopo molto tempo ha avuto luogo una segreteria unitaria tra Cgil, Cisl e Uil, che non è però riuscita a produrre una posizione comune sulla riforma della contrattazione. La principale acquisizione sembra dunque essere quella di aver di nuovo alimentato l’idea che l’unità sindacale possa ridivenire una prospettiva credibile, oltre che necessaria. Nessuna delle confederazioni l’ha esclusa, in quanto tutte in varia misura avvertono l’esigenza di dare maggiore coesione ai sindacati di fronte a interlocutori divenuti sfuggenti, se non ostili: o, al meglio, “non amici”.

È il caso in special modo del rapporto con il governo. Il quale non solo si è sottratto di fatto a un rapporto sistematico con le parti sociali, ma ha operato in diverse occasioni per scavalcarle,
se non per delegittimarle. Non si può sottovalutare il fatto che le divisioni tra i sindacati hanno aumentato la sensazione di una loro presenza divenuta più marginale nell’ambito del sistema politico-istituzionale. E, quindi, proprio una ritrovata unità costituisce una delle strade alternative praticabili per riaffermare il loro ruolo. Ma una volta asserito che ci vuole l’unità sindacale, o almeno più unità, resta ancora da chiarire “quale” unità sarebbe utile o necessaria.

A questo riguardo esistono due diversi corni della questione: uno riguarda la “forma”, cioè l’assetto che essa può concretamente assumere; l’altro riguarda il “cosa”, in altri termini i contenuti prioritari di un progetto unitario. Quanto al primo aspetto non è mancato chi, come il segretario generale della Uil Barbagallo, ha richiamato il valore come modello dell’esperienza della Federazione unitaria. E d’altro canto non è mancato neppure chi (come Landini) ha criticato questa ripresa unitaria, considerandola come un avvicinamento tra burocrazie. Forse è un paradosso, ma bisognerebbe trovare una sintesi efficace tra entrambe queste chiavi di lettura.

La Federazione unitaria degli anni settanta fu il frutto di un compromesso considerato al ribasso
– imposto di fatto proprio dalla Uil di Vanni – rispetto a prospettive unitarie più impegnative. Eppure, quello che all’epoca era considerato poco, forse nel nuovo scenario può essere considerato abbastanza. Ma evitando che si traduca nel mero incontro tra ceti politici, che si legittimano reciprocamente a prescindere dai lavoratori e da una misura efficace delle loro scelte e della loro azione. Va bene la Federazione unitaria, dunque, se però è accompagnata non solo da procedure che riguardano le organizzazioni, ma anche da regole di trasparenza e di democrazia, tali da coinvolgere (nel processo decisionale) lavoratori e iscritti.

Davvero è possibile rendere viva un’esperienza di questo genere? Facendo il miracolo di tenere insieme le organizzazioni e i loro quadri, ma anche il tessuto comunitario dei lavoratori che costituiscono la loro platea indispensabile, a partire dai “militanti”? La risposta è positiva, a patto che le confederazioni sappiano reagire alle loro difficoltà pensando in grande. E questo ci porta al “cosa”. Quanto a questo, ci sarebbe molto da fare e non c’è che l’imbarazzo nella scelta. Ma, proprio perché un lungo elenco sarebbe da considerare un equivalente del non fare niente, allora sarà meglio mettere l’accento su alcune priorità intorno alle quali il rapporto unitario si potrebbe esercitare concretamente. In modo che l’unità possa diventare azione strategica e spirito diffuso.

Un banco di prova importante riguarda il ridisegno delle regole del sistema contrattuale. Anche perché sarebbe un segnale di ritrovato dinamismo delle confederazioni e della loro capacità di incidere sul tessuto produttivo vivo. Le differenziazioni sembrano appartenere più alle storie passate che alle effettive logiche della fase attuale. E soprattutto la Cgil, che non ha firmato l’accordo separato del 2009, avrebbe tutto da guadagnare dalla ridefinizione di un impianto ambizioso, in grado di aiutare l’innovazione organizzativa, l’incremento di produttività e la crescita di occupazione buona e qualificata; oltre ovviamente a elaborare un indice aggiornato cui parametrare la crescita delle retribuzioni-base.

Ma vi sono anche temi, forse meno impegnativi, sui quali le confederazioni da sole – cioè a prescindere da altri attori – potrebbero esercitare l’impegno a sommare le loro forze
(mezzi, uomini e idee), come mai avvenuto in precedenza. Uno riguarda gli strumenti e le organizzazioni rivolti alla rappresentanza del lavoro instabile e precario, che tutte e tre hanno, ma che stenta (in tutti e tre i casi) a svolgere un ruolo di primo piano. Quale migliore occasione di costruire una struttura comune – una “casa comune” – dedicata a questo obiettivo e in grado di rendere visibile che l’impegno dei sindacati verso il lavoro meno stabile e meno protetto può davvero crescere in intensità e in risultati? Si tratta di una tesi di buon senso, sulla quale insiste da tempo Gian Primo Cella. Un’occasione per tradurre una debolezza condivisa in uno sforzo di effettiva cooperazione che ha come posta l’avvicinamento al sindacato (tout court) di una porzione significativa di mondo del lavoro.

Un secondo tema di rapida manifestazione di buona volontà riguarda il rapporto con il mondo della ricerca e degli intellettuali. Dopo i fasti degli anni settanta-ottanta ciascuna organizzazione appare priva della forza (anche economica) per affrontare in modo efficace queste attività. Con il paradosso che, quanto più risulta evidente la non autosufficienza delle culture sindacali, esse corrono il rischio di privarsi dell’apporto tecnico e di competenze che, magari più disincantato che in passato, continua a guardare con speranza al lavoro organizzato. Dunque, perché non immaginare strutture comuni di ricerca di alto livello e di raccordo con il mondo scientifico?

Esiste poi un ultimo nodo più generale da portare – tra i tanti – all’attenzione. E riguarda la visione del futuro che i sindacati sono in grado di evocare.
Quell’immaginazione del futuro che funziona da anima di un tessuto connettivo, e dunque della loro capacità di parlare agli iscritti (incentivandoli ad aderire), ma anche a una platea più vasta. Nel corso degli ultimi decenni, le tre confederazioni hanno lavorato principalmente sul rispettivo dna per cercare di potenziarlo (sindacato dei diritti, dei cittadini, della partecipazione). Ma questi tre dna distinti, per buoni che siano, non hanno prodotto nell’insieme un corpo forte e ben strutturato, e soprattutto chiaramente proiettato verso il futuro. Per questa ragione, le nostre tre confederazioni avrebbero la convenienza a muoversi insieme verso una rappresentazione del “sindacato” (singolare) più in sintonia con le trasformazioni sociali che hanno preso corpo.

Se il sindacato era stato l’interprete riconosciuto del Lavoro con la maiuscola – per parafrasare Aris Accornero – del Novecento, esso non è stato ancora capace di diventare il canale generale, socialmente accettato, per la rappresentanza dei lavori minuscoli
che caratterizzano la nostra epoca e che pluralizzano i lavoratori. Un canale idoneo non solo a risolvere i problemi del momento, ma anche a prefigurare un disegno e un processo di miglioramento di lungo periodo. È questa la grande sfida comune – di visione, linguaggio e immaginario – se si è ambiziosi e si vuole concorrere alla regolazione di “tutto” lavoro: altrimenti, restano in campo opzioni più pragmatiche, ma certamente deboli o meno entusiasmanti.