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Quarant’anni fa, nel 1975, Claude Lanzmann incontrò a Roma Benjamin Murmelstein, già rabbino a Vienna, e girò con lui una lunga intervista. I loro colloqui, infatti, si svolsero nell’arco di una settimana, mattina, pomeriggio e, talvolta, sera. Lanzmann filmò tutto, poi tornò a Parigi e il materiale girato rimase inutilizzato per i trentotto anni successivi.
All’epoca, Lanzmann era un intellettuale francese cinquantenne. Di lui si sapeva che aveva aderito giovanissimo alla Resistenza e che, durante la guerra d’Algeria, aveva firmato il Manifesto dei 121 che denunciava la brutalità della repressione praticata dalla Francia nel paese nordafricano. Giornalista, aveva collaborato con Les Temps Modernes, la rivista fondata da Jean-Paul Sartre, e ne era divenuto poi direttore. Lanzmann era anche un sostenitore del diritto dello Stato di Israele a vivere e a vivere in pace in mezzo ai suoi vicini arabi. Diritti assai fragili, come aveva mostrato la Guerra dei Sei giorni (1967). Lanzmann era perciò entrato in polemica con chi, avendo sostenuto come lui il diritto all’indipendenza del popolo algerino, riduceva la complessa e ricca realtà israeliana a un fatto coloniale. Da questo conflitto politico-culturale era nato il suo primo film, intitolato Pourquoi Israël (Perché Israele), uscito nel 1973.
In una recente intervista rilasciata a Francesco Castelnuovo di Sky Arte, Lanzmann ha rivelato che iniziò a pensare alla sua successiva opera cinematografica, dedicata a un’indagine sullo sterminio nazista degli ebrei europei, già nel 1972. Fatto sta che, forte di molte e dense letture, nel 1975 lo troviamo a Roma, pronto a girare il primo colloquio per il suo secondo film, all’epoca ancora privo di titolo.
Nell’intervista con Castelnuovo, Lanzmann racconta anche che uno dei problemi che avevano allora catturato la sua attenzione era la polemica sul ruolo dei cosiddetti Judenrete, i “Consigli degli ebrei” ideati, organizzati e imposti dai nazisti alle Comunità ebraiche dell’Europa centro-orientale. Alle orecchie di Lanzmann, il termine stesso di “collaborazionista ebreo”, usato da alcuni, suonava falso. Ci sono stati collaborazionisti francesi o belgi, argomenta Lanzmann, gente che condivideva l’ideologia nazista, antisemitismo compreso. Ma non si possono paragonare a costoro degli esseri umani costretti a interagire con le truppe di occupazione con una pistola puntata alla nuca.
Come è noto, la denuncia della funzionalità di questi Consigli rispetto all’attuazione dello sterminio nazista fu particolarmente dura da parte di Hannah Arendt nel suo celebre libro intitolato, nell’edizione italiana, La banalità del male (titolo originale Eichmann in Jerusalem), del 1964. Lanzmann si imbatté però in un altro volume, assai meno noto, ma storiograficamente più solido. Si tratta di Judenrat (1972) opera di Isaiah Trunk, storico statunitense di origine polacca, che, secondo Lanzmann, offre una visione diversa dell’azione dei Consigli. I cui membri, in linea di massima, non furono affatto dei volonterosi collaboratori delle autorità naziste, ma gente che tentava la carta della sopravvivenza in condizioni disperate.
Ed ecco che mentre Lanzmann si arrovellava intorno a questa problematica, venne a sapere che l’ultimo dei tre uomini che, in successione, erano stati posti dai nazisti a capo del Consiglio del cosiddetto ghetto di Terezin, Benjamin Murmelstein, era ancora in vita e abitava a Roma. È da tutto questo che nascono l’incontro e la lunga intervista del 1975.
Un’intervista in cui un Murmelstein settantenne si racconta senza lamenti. Rabbino attivo presso la Comunità ebraica di Vienna, ebbe modo di conoscere Eichmann già nel 1938, subito dopo l’annessione dell’Austria alla Germania. In quella fase, infatti, l’allora capitano Eichmann si adoperava per far sì che gli ebrei emigrassero, insomma se ne andassero dai territori governati dal Terzo Reich. È in quest’ambito che il colto e duttile Murmelstein iniziò a collaborare con Eichmann. Aiutandolo a redigere rapporti sulle problematiche dell’emigrazione, ma anche dandosi da fare affinché gli ebrei austriaci, desiderosi di sottrarsi al giogo nazista, ottenessero i visti di immigrazione in paesi terzi che, all’epoca, erano tutt’altro che propensi ad accoglierli. In seguito, quando la Seconda guerra mondiale era già in corso, Murmelstein fu spedito a Terezin, una città-fortezza posta a sessanta chilometri da Praga e denominata dai tedeschi Theresienstadt.
Ora, quella di Terezin è in sé una storia folle che non potrebbe neppure essere concepita all’infuori della follia nazista. Da un lato, infatti, i nazisti decisero di fare di Terezin una stazione di passaggio in cui concentrare ebrei provenienti dalla Germania, dall’Austria e dal Protettorato di Boemia e Moravia (l’attuale Repubblica Ceca) e destinati ai campi di sterminio dell’Europa orientale. Dall’altro, vollero presentare al mondo Theresienstadt come la città di cui Hitler aveva fatto dono agli ebrei. Convogliarono quindi su Terezin un paio di visite tentate dalla Croce Rossa per accertare le condizioni degli internati, e realizzarono perfino un documentario di propaganda in cui si vedono anziani che giocano a scacchi o ragazzi e ragazze che fanno merenda con fette di pane imburrato. In realtà, molti ebrei internati morivano di stenti già nel periodo trascorso nella sovraffollata Terezin, mentre altri vennero via via spediti ad Auschwitz.
Dopo l’eliminazione fisica dei due suoi predecessori, nel dicembre del 1944 Murmelstein fu nominato decano del Consiglio degli ebrei di Terezin, di cui era da un anno il numero due. Una “carica” che ricopriva ancora quando, nella primavera del ’45, Terezin fu liberata. Murmelstein si ritrovò quindi ad essere l’unico decano di un importante Judenrat ancora in vita a guerra finita.
Dopo le sue intense giornate romane, Lanzmann portò avanti il suo lavoro di ricerca volto a raccontare lo sterminio nazista senza usare immagini dell’epoca, ma solo interviste con i sopravvissuti (vittime, carnefici o testimoni), o immagini da lui girate nei luoghi ove si era svolta la tragedia. Un lavoro approdato a quel monumentale docufilm che uscì nel 1985 e che noi chiamiamo con il titolo che Lanzmann trovò solo alla fine: Shoah (in ebraico, disastro, catastrofe).
Nelle nove ore di Shoah – un film “epico”, secondo Lanzmann – i problematici colloqui con Murmelstein non trovarono posto. Ma dopo trentotto anni da quell’incontro romano e dopo ventotto anni dall’uscita di Shoah, Lanzmann, nel 2013, ha ripreso in mano il materiale del 1975 e vi ha aggiunto scene da lui girate, secondo una tecnica già usata in Shoah, nei luoghi citati da Murmelstein, da Vienna a Terezin. Ne è nato un nuovo film che, rovesciando il titolo di un celebre libro di André Schwarz-Bart, Lanzmann ha chiamato L’ultimo degli ingiusti. E che è ora reperibile in un Dvd edito da Fil Rouge Media (che contiene anche la citata intervista), mentre l’editore Skira ha meritoriamente pubblicato la sceneggiatura del film in un volume con il medesimo titolo (L’ultimo degli ingiusti, pp. 144, euro 15,00).
“Come mai lei è vivo?”. Questa è la domanda, anzi l’accusa, che un inquisitore ceco pose nel 1945 a Murmelstein, incarcerato a Praga sotto l’imputazione di collaborazionismo. Dopo diciotto mesi di detenzione, Murmelstein fu rilascato e prosciolto da ogni accusa. Ma la domanda rimane inevitabilmente lì, e Murmelstein lo sa. Perché i nazisti non si sono liberati di lui, come hanno fatto con i suoi predecessori a Terezin e, in genere, con i decani dei Consigli degli ebrei nell’Europa centro-orientale (meno quelli che hanno tolto il disturbo suicidandosi)?
Mulmerstein è persona intelligente e trova una risposta creativa, aiutandosi con la letteratura. Data la sua complessione fisica, si paragona a Sancho Panza, l’antieroe di Cervantes, un personaggio “pragmatico e calcolatore mentre altri combattono contro i mulini a vento”, un “calcolatore realista con i piedi ben piantati per terra”. Ma, considerando ciò che ha fatto, si paragona anche a Sherazade. Infatti in Le mille e una notte “ci sono una principessa e un sultano. Il sultano uccide tutte le donne. Una di loro sopravvive perché deve raccontare una favola. E ci impiega così tanto a raccontare la sua favola che alla fine si salva”. “Perché sono l’unico decano sopravvissuto?”, torna a chiedersi Murmelstein. E risponde: “Perché, come Sherazade, raccontavo storie”.
Solo che, nel caso di Murmelstein, non si trattava di narrare le imprese favolose di Ali Baba o di Sinbad, ma di contribuire alla messa in scena della bugia di Terezin. E ciò prestando la propria opera di “organizzatore nato”, come dice Lanzmann, ai lavori di “abbellimento”, ovvero di manutenzione e mascheramento degli edifici della cittadina boema per renderla più presentabile e quindi più funzionale agli scopi propagandistici perseguiti, in questo caso, dai nazisti. Lavori che, peraltro, tenevano occupati gli internati, contribuendo al mantenimento di un’atmosfera relativamente attiva e, quindi, apparentemente meno anormale. “Theresienstadt era un elemento di propaganda. E doveva essere presentata come un elemento di propaganda”, ammette Murmelstein. Il quale, non senza lucidità, dice anche che “salvare me stesso e salvare il ghetto era più o meno la stessa cosa”.
Riabilitare Murmelstein. E per questa via azzerare il concetto stesso di “collaborazionista ebreo”. Questo, in ultima analisi, lo scopo di Lanzmann. Ora, un’intervista filmata non è un processo né una ricerca storica. Ma è certo un documento che potrà essere molto utile agli storici, come a chiunque voglia sapere di più sulla sordida crudeltà della macchina di morte costruita dai nazisti e sui protagonisti dello sterminio, a partire da Eichmann.