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Sono passati 45 anni, ma sembrano non bastare. Non bastano per mettere un punto a una delle tragedie più atroci della stagione delle stragi in Italia, quella del 2 agosto 1980 alla Stazione di Bologna, 85 morti e oltre 200 feriti. Ed è difficile mettere un punto non solo perché sono passati molti anni, ma con loro si sono succeduti depistaggi, omissioni, ambiguità, anche se le due ultime sentenze della Corte di Cassazione, entrambe del 2025, finalmente hanno ristabilito alcuni principi di verità. Pubblicato da Castelvecchi, Operazione Bologna. 1975-1980: l’inarrestabile onda della strategia della tensione (pp. 176, euro 18,50), è un libro che ricostruisce quanto accaduto prima e dopo quel 2 agosto, dalla strategia della tensione ai vari collegamenti che coinvolgono persone, luoghi, associazioni criminali, da Ordine Nuovo alla P2. Ne abbiamo parlato con Antonella Beccaria e Cinzia Venturoli, autrici del volume.
Come nasce la scrittura a quattro mani di “Operazione Bologna”?
Abbiamo iniziato progettando di occuparci del tema generale della strage, come esito, di cui infatti si parla all’inizio e alla fine. Nel mezzo, tutto il resto tratta di quanto accaduto tra il 1975 e il 1980. Volevamo trasmettere l’idea che Bologna non è soltanto una strage ma un’operazione militare, di lunga pianificazione, all’interno della strategia della tensione, anche se in questo caso il referente strumentale alla strategia non è più un progetto golpistico teso ad attaccare le istituzioni, ma uomini che con un lavoro sotterraneo coinvolgono le istituzioni stesse per trasformarle, allontanandole dalla struttura costituzionale figlia della fine della seconda guerra mondiale, e dunque antifascista.
Dunque anche la strage del 2 agosto 1980 appartiene a quella che negli anni ’70 veniva definita “strategia della tensione”?
Certamente, ed è una strategia che si è prolungata nel tempo, anche oltre il 1980. Una strategia sempre funzionale a un progetto di destabilizzazione.
Il volume, in particolare nella sua prima parte, ricostruisce attraverso una ricca documentazione quelli che in un passaggio vengono definiti i “legami indicibili tra eversione e massoneria”. Oggi si può ormai affermare questo, sono divenuti “dicibili”?
Sì. Licio Gelli e Umberto Ortolani, i capi della P2, sono ormai riconosciuti quali mandanti della strage, così come Federico Umberto D’Amato, già direttore dell’Ufficio Affari Riservati del Ministero dell’Interno nella prima metà degli anni Settanta, e Mario Tedeschi, ex direttore de Il Borghese, entrambi nell’organico della P2, e attivi anche nella fase di depistaggio. Ne emerge che la P2 non era soltanto una loggia massonica, ma una sorta di camera di compensazione, unita nei comuni interessi, per un’operazione di carattere anticomunista e filoatlantica, e che dunque non riguardava soltanto l’Italia: d’altronde nelle sue liste figuravano anche due dittatori sudamericani, e Licio Gelli aveva contatti molto stretti in larga parte dell’America Latina.
Oggi sono passati 45 anni. A che punto siamo nella definizione di colpevoli e mandanti? Cosa hanno determinato le due recenti sentenze di Cassazione?
Intanto sono stati individuati un quarto e quinto uomo tra gli esecutori, Gilberto Cavallini e Paolo Bellini; poi c’è una ricostruzione dei mandanti anche attraverso il flusso finanziario, soldi sottratti al Banco Ambrosiano di Roberto Calvi e distribuiti tra tutti i personaggi coinvolti, almeno quelli conosciuti. Perché bisogna ricordare che Paolo Bellini è stato condannato anche in concorso con altre persone, ancora non individuate, dunque potrebbero spuntare altri nomi. Queste sentenze ribadiscono inoltre che si tratta di una strage politica, e quindi la storiella dei Nar “spontaneisti” è definitivamente confutata. In realtà c’è una galassia di sigle che concorre in questa strage, un organigramma molto ampio e strutturato.
Cosa resta da fare ora?
Raccontare, divulgare, parlarne soprattutto con i giovani, affinché questa pagina tragica diventi patrimonio comune.