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Non c’è alcuna dialettica tra economia e politica. È una falsa discussione. Il pensiero economico dominante (“marginalista”) degli ultimi trent’anni è sempre stato perfettamente in sintonia con gli interessi costituiti che dominano la politica economica (liberista), soprattutto in Europa, che hanno portato alla crisi globale e che continuano a governarla, impedendo il cambiamento del modello di sviluppo europeo e l’uscita dalla stessa crisi.
Anzi, tale pensiero economico, avvalendosi di modelli matematici “discrezionali”, ha indotto a concepire sempre di più l’economia come una scienza tecnica, “triste”, e sempre di meno come scienza umanistica, euristica, filosofica, com’era all’origine. Ma non è così. Paul Krugman rimprovera a molti illustri docenti di dimenticare l’importanza dei testi base universitari, dove la semplicità dei modelli di riferimento aiuta a partire da problemi comprensibili.
“Parlare con paroloni e formule complicate può creare una parvenza di legittimità in chi si espone in tal modo – sostiene il premio Nobel per l’economia –. Il problema è che i risultati sono deludenti proprio a causa del percorso non naturale seguito da costoro. Le difficoltà della realtà che ci circonda aumentano tenendo in considerazione le infinite variabili, troppo spesso ignorate o sottovalutate. Pertanto, l’economia non è affatto una scienza triste, se non quando viene ‘piegata’ dagli interessi precostituiti e depurata dall’anima filosofica e politica. Dunque, possiamo piuttosto definirla una scienza infelice”.
Una delle interpretazioni della crisi più accreditate attribuisce ai vuoti strutturali di democrazia europea gli squilibri macroeconomici dell’Unione, che hanno portato all’esposizione dei debiti sovrani e, purtroppo, all’austerità come contromossa di politica economica, ingenerando la spirale recessiva, depressiva e deflattiva da cui ancora dobbiamo uscire. In questi vuoti, si sono potuti insinuare gli interessi costituiti, nascosti dietro i rapporti di forza tra gli Stati, che hanno irrigidito i trattati, inserendo come obiettivo di medio termine il pareggio di bilancio “strutturale” nelle Costituzioni o negli ordinamenti nazionali.
Il Documento di economia e finanza, approvato dal Consiglio dei ministri lo scorso 10 aprile, descrive una politica economica esattamente in questa logica, in continuità con i governi precedenti. Dai diversi documenti che lo compongono, si evince che l’esecutivo scommette su una ripresa senza nuova occupazione, programmando un alto tasso di disoccupazione nel breve come nel medio-lungo termine e permettendo alla tecnocrazia europea di controllare l’inflazione, i rendimenti dei titoli pubblici e le ragioni di scambio, al servizio silenzioso deii grandi capitali finanziari e delle imprese con maggiori quote di commercio internazionale, a scapito del lavoro, del welfare, della crescita e dello sviluppo.
Tecnicamente, infatti, il deficit in termini “strutturali” si misura sul Pil potenziale, cioè al netto delle cosiddette “oscillazioni cicliche” (deviazioni dal sentiero “normale” di crescita del Pil) e delle una tantum (come i prestiti ai Fondi salva-Stati). Chiaramente, in fase recessiva il Pil potenziale è maggiore del Pil effettivo, determinando uno spazio fiscale aggiuntivo. Tanto è maggiore il Pil potenziale, tanto si riduce l’ampiezza dell’avanzo primario richiesto e, dunque, l’entità delle manovre economiche e finanziarie – fatte di tagli lineari alla spesa e aumenti iniqui delle tasse – che ogni paese europeo deve realizzare per rispettare i trattati e, nello specifico, il Fiscal compact.
Secondo il modello di crescita adottato dalle istituzioni europee, per misurare il Pil potenziale occorre stimare l’output gap, ossia il differenziale fra il Pil effettivo e il Pil che si avrebbe se tutte le risorse produttive (capitale, forza lavoro e un fattore “residuo” che possiamo definire come progresso tecnico del Sistema paese) fossero impiegate pienamente nella produzione. E qui sta il punto. Come si determina il pieno impiego dei fattori produttivi?
Per realizzare questo calcolo, occorre misurare la forza lavoro disponibile e, perciò, il tasso di disoccupazione “naturale” (in acronimo inglese Nairu o Nawru), cioè quel livello di massima occupazione oltre il quale si aumenterebbe l’inflazione. Essendo l’output gap e il Nairu indicatori non osservabili, la Commissione europea fa le sue stime sulla base di assunti che implicano diversi gradi di discrezionalità. Ma sulla base di valutazioni diverse è possibile costruire modelli alternativi che conducono a conclusioni anche molto distanti. A detta dello stesso governo italiano “nell’ambito dell’Unione europea si usa un modello di calcolo nel quale sono incorporate valutazioni discrezionali concordate tra gli Stati membri”. Bingo.
Chi decide la disoccupazione “naturale” del nostro paese? Perché si rinuncia all’obiettivo della piena occupazione? Non si può prendere a riferimento almeno il tasso di disoccupazione minimo pre-crisi (6,3% ad aprile 2007)? Se è un processo politico, richiede trasparenza e democrazia deliberativa. Se invece è un processo tecnico-scientifico, serve onestà intellettuale e obiettività. Delle due l’una. E invece, no. È un processo tecnocratico opaco che porta a programmare per l’Italia un tasso di disoccupazione “naturale” vicino a quello effettivo, ovvero tra il 12,7% e il 10,5% da qui al 2020, condannandoci a una disoccupazione giovanile di almeno il 40% per tutti i prossimi anni.
Questo è quanto viene riportato nel Def 2015 del governo, che si limita solo a qualche obiezione tecnica, in un “focus” d’appendice. Per questo la Cgil afferma che il governo si arrende a una politica della disoccupazione, che svaluta il lavoro e indebolisce la contrattazione, scommettendo tutto sui mercati. Dopo sette anni di crisi, appare evidente che questa strategia non funziona. Dopo sette anni di crisi, è ormai chiaro che gli interessi dominanti hanno usato la crisi stessa. Non è vero che l’austerità rappresenta l’unica alternativa possibile.
Ricapitolando, programmare un alto tasso di disoccupazione “naturale”, da un lato, impedisce che aumenti l’inflazione, scomoda ai grandi capitali finanziari e alle grandi imprese esportatrici, soprattutto tedesche; dall’altro, riduce l’output gap e, per questa via, il Pil potenziale, imponendo all’Italia una correzione dei conti ben più consistente del dovuto. Un boomerang per il nostro paese. Basterebbe questo argomento al governo italiano per aprire una vera e propria “vertenza” europea.