Il testo che segue è la sintesi dell’articolo pubblicato nel n.3-4 2016 de La Rivista delle Politiche Sociali. Gli abbonati possono leggerlo qui in versione integrale. Questo è invece il link alla rubrica che Rassegna dedica alla stessa Rivista

La questione delle disuguaglianze economiche, di reddito e di ricchezza, è ormai entrata nella discussione pubblica del nostro Paese. L’impressione tuttavia è che essa sia spesso richiamata in termini superficiali, associata a uno sbandieramento di numeri che di per sé dicono poco – e, a volte, sono addirittura scorretti – e che, soprattutto, non aiutano a capire le cause alla base del livello e della tendenza del fenomeno.

Si consideri l’affermazione, più volte espressa, secondo cui la disuguaglianza dei redditi in Italia sarebbe notevolmente cresciuta negli anni della crisi. Se si considerano i redditi disponibili (dopo il pagamento delle imposte e dopo la ricezione dei trasferimenti monetari) e si utilizza la misura più comune, ossia l’indice di Gini, non si osserva al contrario alcuna variazione. L’indice è stabile attorno a 0,325.

La disuguaglianza è solitamente calcolata sulla base di rilevazioni campionarie che hanno estrema difficoltà a cogliere con precisione quanto avviene nelle code della distribuzione (fra i “super-ricchi” e i molto poveri). Senza contare che uno stesso valore dell’indice è compatibile con cambiamenti orizzontali anche non di poco conto: le quote di reddito detenute dai diversi segmenti della distribuzione possono restare le stesse, ma i soggetti che occupano tali segmenti essere molto diversi. In Italia, solo per fare un esempio, abbiamo assistito a un consistente scivolamento degli operai e dei lavoratori meno retribuiti verso le parti più basse della distribuzione.

Dall’altro lato, è rilevante la dimensione reddituale su cui si pone l’attenzione. Un conto è, infatti, guardare ai redditi disponibili, un altro è considerare le disuguaglianze di mercato (escludendo quindi l’effetto della redistribuzione), distinguendo anche per fonte di reddito. Così facendo, si vedrebbe un chiaro incremento nella disuguaglianza dei redditi individuali da lavoro, che non traspare dai dati complessivi, i quali scontano, fra le altre cose, la diminuzione dei redditi da capitale (di cui beneficiano i più ricchi) prodotta nei primi anni della crisi.

Per una valutazione più precisa dell’andamento della disuguaglianza e dei meccanismi che la determinano occorre, dunque, entrare nei dettagli. Non basta dire la disuguaglianza è aumentata. Nel dibattito pubblico, poi, è diffusa la tendenza a trasformare la riflessione sulla disuguaglianza in una riflessione sulla povertà, nella sottovalutazione delle distinzioni fra i due fenomeni. Certamente, esistono casi in cui la disuguaglianza riguarda l’assenza per alcuni di una base di risorse necessarie a soddisfare le capacità fondamentali. Se così, la disuguaglianza sarebbe affine alla povertà, pur implicando un livello di dotazioni più esigente di quello tipicamente connesso alla povertà..

Sul versante economico, la disuguaglianza riguarda tuttavia le distanze all’interno della complessiva distribuzione. La povertà concerne un segmento della distribuzione. Si tratta, pertanto, di due fenomeni distinti, seppure in parte interrelati. La disuguaglianza comprende anche l’area della povertà, mentre non è vero il contrario. Il che rende erroneo ridurre la disuguaglianza alla povertà. Occuparsi di povertà è indubbiamente essenziale, in particolare in un Paese come il nostro, dove la povertà assoluta, nel periodo 2005-2015, è aumentata del 140%, investendo un milione di minori. Conta, tuttavia, occuparsi anche di disuguaglianza, sia per gli effetti sulla povertà stessa, sia per altri effetti negativi, che anch’essi andrebbero considerati, quali quelli sulle più complessive opportunità e sul funzionamento del gioco democratico o sulla stessa crescita economica.

Va detto che, spesso, sempre nel dibattito pubblico, si assiste a una strana discrasia fra la denuncia delle disuguaglianze e le politiche di contrasto auspicate. Queste ultime, paradossalmente, potrebbero comportare l’effetto opposto di aggravio o, al meglio, essere di sostanziale inutilità. Basti pensare agli interventi di stimolo alla crescita, la quale potrebbe rilevarsi del tutto compatibile con il mantenimento, se non addirittura con l’incremento, delle disuguaglianze. Parafrasando Krugman, l’onda della crescita, anziché tutte le barche, potrebbe sollevare solo gli yacht, come ben esemplificato dalla capacità dell’1% più ricco degli americani di accaparrarsi nel ventennio 1993-2013 circa il 60% della crescita del Pil.

E, dati alla mano, sembrano assai poco convincenti anche prospettive basate sui due tempi: accettare oggi una crescente deregolamentazione delle forme contrattuali e, dunque, una maggiore disuguaglianza delle retribuzioni, come prezzo per avere, in futuro, meno disuguaglianza attraverso la crescita del numero dei posti di lavoro. Neppure, sono sufficienti politiche di creazione di lavoro; è necessario, anche, che la maggiore occupazione vada a beneficio delle famiglie nella parte bassa della distribuzione, anziché coinvolgere il secondo coniuge in famiglie già prima non povere. Diversamente, la maggiore occupazione non riduce la disuguaglianza e neppure la povertà, come si è verificato nel recente passato nel nostro Paese, nonché in diversi altri Paesi europei.

Elena Granaglia è professore ordinario di Scienza delle finanze all’Università di Roma Tre; Michele Raitano è ricercatore di Politica economica alla Sapienza, Università di Roma