Dopo Tangentopoli, un gran numero di settori di attività pubblica e privata hanno visto lentamente degradare sia lo spirito anticorruttivo, sia i comportamenti delle diverse parti contrattuali, e abbiamo interpretato ciò come la conseguenza della “vittoria” del motivo del profitto, rispetto a non si sa bene quale altro obiettivo ci si potesse riferire per l’azione imprenditoriale. La questione mi sembra mal posta o, almeno, si ferma alla superficie del fenomeno. Se si va più in profondo, la realtà si complica, ma alcuni elementi suggeriscono che le cause sono più vicine di quel che si pensa.

Ciò che era tradizione giuridica in Italia, ma anche e forse soprattutto nei paesi anglosassoni, e che spiegherò subito, è stata distrutta nel nostro paese, e sospetto anche altrove, dall’accordo costruito coscientemente dai contraenti (di grandi dimensioni, è ovvio) contro il principio e la pratica del contrasto d’interesse tra parti contrattuali. La questione è particolarmente rilevante in Italia nel caso delle opere pubbliche: le diverse riforme della legge Marcora, a partire dal 1992, hanno edulcorato quel contrasto fino a farlo sparire.

In questo caso, l’autorità pubblica si trova oggi sola rispetto al mercato. Nelle gare su opere pubbliche, i costruttori (oligopolisti non perseguiti realmente dalle autorità anti-trust in Italia e, difficile stupirsene, perfino da quelle europee) o si fanno concorrenza oligopolistica (trust, intrecci societari e finanziari) nel progettare l’opera da eseguire, o quando il bando sceglie un capofila cui assegnare tutte le responsabilità, dalla progettazione di dettaglio fino al controllo sugli esecutori, lo Stato è in condizioni di inferiorità, dalla quale nessuna norma, anche la più ferrea sul controllo, lo può sottrarre.

Da qui nascono i disciplinari dei bandi di gara che consentono, di fatto, e spesso di diritto, anche con il consenso europeo, varianti in corso d’opera, progettazioni suppletive, aumento dei costi, e tutto ciò che rende le opere pubbliche in Italia così più costose che in analoghe circostanze altrove: si tratta di cambiamenti apparentemente necessari, ma provocati, come si è visto, da pratiche corruttive. Non molto diversa è la situazione degli appalti dei servizi. Ne derivano solo due possibilità: o lo Stato produce direttamente ciò che il settore privato farebbe con corruzione e spreco – e mi pare che, al momento, questa non sia la soluzione maggioritaria, né in Italia, né altrove – o lo Stato divide il settore privato, separando la progettazione, da quella preliminare fino a quella esecutiva, dalla costruzione, mettendo a gara tra imprese autonome di ingegneria e di finanza contratti per specifiche opere, sui quali il costruttore non può mettere bocca.

In questo modo, lo Stato non è solo nell’affrontare l’oligopolio di costruttori, mentre è autore dello sviluppo di un vero e proprio autonomo settore di attività, particolarmente colpito negli anni dopo Tangentopoli proprio dal degrado del contrasto d’interessi. Allo stesso tempo, almeno uno dei vantaggi degli oligopolisti tra i costruttori si riduce, e il potere contrattuale dello Stato può crescere.

Le imprese finanziarie sono perfino sovrabbondanti, ma tendono ad avere interessi corposi, di nuovo lontani dall’obiettivo pubblico (è il caso del project financing, in origine pensato come una forma di aiuto allo Stato). Le imprese di progettazione esistono, ma o lavorano molto all’estero, dove quel contrasto è legge, anche se talvolta approfittano dove quel contrasto degrada per trasformarsi in costruttori e creare un nuovo oligopolio, oppure diventano sezioni di imprese di costruzione.

È bene tener conto che lo sviluppo autonomo della progettazione spingerebbe queste imprese, strutturalmente più aperte a ottenere risultati dalla ricerca industriale, a dirigere i propri sforzi verso l’innovazione e a interessarsi della ricerca pubblica, fornendo un indispensabile strumento per una competitività non basata sull’immiserimento dei suoi lavoratori. Naturalmente, lo Stato che pratica il contrasto d’interessi deve essere tecnicamente almeno al livello delle migliori società di progettazione, e il suo personale capace di giudicare i meriti di un progetto.

Questa non è la condizione attuale, dove la gestione degli appalti pubblici è, in definitiva, assegnata a giuristi: una delle ragioni dell’inviluppo delle norme sulla corruzione negli appalti.
Non solo. Mentre si parla molto del ruolo del “merito” nella selezione degli operatori, questa si limita alla qualità dei singoli, non alla loro utilità per lo Stato. Siamo di fronte a uno tra i tanti esempi di un possibile vero liberal-socialismo, altrimenti un inevitabile ossimoro, dove si spaccia per liberale tutto ciò che si muove sul mercato, e per socialista tutto ciò che potenzia la corruzione. E non è vero.