Al di là delle apparenze non sorprende la presa di distanza di Monti dalla concertazione: prima del suo ragionamento esplicito avevano parlato i fatti. Come era stato palese nella recente trattativa-non trattativa sul mercato del lavoro, gran parte del governo nutriva un pregiudizio su questa materia, tanto che aveva preferito non sottoscrivere un testo di accordo con le parti sociali (anch’esse un po’ colpevoli a questo riguardo). Questo orientamento non viene da vicino, non sorprende: ma è fondato?

Sono ormai diversi anni che si è estinto o ridimensionato l’entusiasmo degli scienziati sociali nei confronti degli accordi triangolari (tra governi e parti sociali), che erano stati interpretati come un prezioso e non sostituibile strumento di regolazione capace di assicurare nello stesso tempo maggiore efficacia pratica e maggiore coesione sociale: il riferimento era alle democrazie del Centro e soprattutto Nord Europa, che avevano a lungo esibito un equilibrio tra successo economico ed equità sociale.

A questo si aggiunga che nella sfera politica in molti paesi, anche dietro spinta delle pressioni imprenditoriali, i governi hanno mostrato, nel corso del periodo più recente, di preferire non legarsi a intese con i sindacati, optando per le virtù della decisione unilaterale – che non deve fare i conti con le mediazioni – o della rapidità degli aggiustamenti operati dal mercato.

La concertazione, secondo questi approcci, avrebbe il vizio di essere troppo lenta, ma anche quello di dare spazio a punti di vista, come quelli del lavoro, che si preferisce tenere nell’angolo. Per esempio nel caso specifico del mercato del lavoro condividere le decisioni avrebbe significato annacquare la bontà salvifica della ricetta: peccato che questa sia restata oscura ai più. Lungo questo solco si erano già mossi nel corso del decennio i governi presieduti da Berlusconi. Richiamandosi al metodo del “dialogo sociale” quegli esecutivi avevano escluso di volere condividere le scelte con le parti sociali e manifestato la preferenza per la decisione per “decreto”.

Il capolavoro di questo mainstream si è materializzato nell’art. 8 della manovra ferragostana 2011, in cui il ministro del Lavoro interveniva pesantemente sulla contrattazione, per la prima volta nella storia delle nostre relazioni industriali mediante legge e senza che le parti avessero richiesto o promosso quelle misure. Un parte del governo Monti si colloca, con maggiore stile, su questo stesso filone, che potremmo definire come vetero liberale o neo-liberista. L’ispirazione di fondo si è tradotta nel fastidio di dover dividere con le organizzazioni di rappresentanza un pezzo di decisioni su materie economiche e sociali.

Un fastidio dovuto sia alla critica verso il ruolo
delle rappresentanze funzionali, considerato eccessivo e da comprimere, che alla esigenza di ripristinare uno spazio politico incontaminato e non aperto all’influenza delle rappresentanze sociali. Rispetto al passato questa posizione – consistente nel rafforzamento gerarchico dell’attore governo – ha avuto un largo sostegno dai media e anche da parte di intellettuali eccellenti, soprattutto economisti. Non si è trattato solo della valutazione della concertazione come di un armamentario obsoleto, come ha cercato di convincerci il Corriere della Sera in sintonia con ampi settori finanziari ed economici.

Ma più a larga scala della manifestazione dell’insofferenza verso un’arena decisionale socialmente più densa e l’idea di una maggiore snellezza e incisività dell’azione pubblica se sgravata dai lacciuoli della convergenza necessaria con altri soggetti. Altri, tuttavia, sottolineavano nello stesso tempo la rilevanza della concertazione per il raggiungimento di fini condivisi, evocando soprattutto il Protocollo del 1993 da cui derivò, in un frangente critico per il nostro paese, maggiore cooperazione trasversale e capacità di fare sistema intorno a obiettivi virtuosi (dal controllo dell’inflazione al risanamento dei conti pubblici all’ingresso nell’euro).

Una strada che è stata a lungo perseguita nei capitalismi europei con risultati positivi, non solo per le grandi organizzazioni, ma anche per i beni pubblici conseguiti. Ma l’altra idea ha ottenuto effetti positivi paragonabili a quelli del 1993 (che peraltro aprì un ciclo nel quale fu centrale l’apporto della concertazione e l’impegno delle parti sociali)? In realtà questa conclamata superiorità della decisione per decreto o per mercato ha prodotto – sicuramente nella vicenda sopra ricordata – esiti deludenti se non esplicitamente negativi.

Quasi nessuna delle promesse conclamate è stata concretamente adempiuta. Né la promessa di decisioni più rapide, dal momento che in luogo della stringente attuazione di un Protocollo di concertazione si è assistito a un lento, farraginoso e oscillante percorso parlamentare (la cui importanza non si vuole ovviamente svalutare) non ancora ultimato. Non abbiamo mai assistito in passato a oscillazioni così ampie e indeterminate del testo di un provvedimento importante, come è avvenuto dopo il ricorso del governo al disegno di legge sulla riforma del mercato del lavoro.

La mancanza di un testo condiviso ha indotto tutti gli attori a differenziarsi e a smarcarsi. Insomma invece di favorire quei comportamenti centripeti (in genere assecondati dalle convergenze concertative) si è dato vita a tendenze centrifughe e alla contrapposizione di tutti contro tutti. Ne è derivato uno spazio maggiore per la mediazione operata dai partiti in parlamento, e questo non è stato di per sé un effetto problematico, sia perché ha costituito un’opportunità, sia perché è in gioco il recupero di autorevolezza del sistema politico. Ma il tutto dentro un quadro di confusione crescente e di cooperazione più incerta.

In realtà gli stessi esiti di contenuto promessi dalla riforma – tra cui la semplificazione dei regimi d’impiego e un accesso più rapido al lavoro stabile (mettendo sullo sfondo le variazioni all’art. 18) – sono divenuti in corso d’opera più pallidi, non appetibili per gli attori sociali e d’incerta realizzazione. Insomma il calcolo cui il governo si era implicitamente richiamato – prima del recente outing esplicito di Monti – che senza concertazione si dava luogo a decisioni non solo più nette e forti, ma anche dotate di consenso maggiore, si è rilevato come manifestamente infondato.

Tralasciando la critica all’impostazione non persuasiva dell’attuale premier possiamo ancora ritenere che la concertazione sia uno strumento di regolazione valido e potenzialmente superiore rispetto alle alternative? La risposta è positiva, a patto di evitare la santificazione eccessiva di questo metodo e di introdurre alcuni correttivi per migliorarlo alla luce della lunga esperienza italiana e internazionale. In primo luogo la concertazione svolge la funzione di aprire lo spazio politico agli attori sociali e di costituire un passaggio necessario per dare vita a scelte che contengano il mercato e i suoi effetti.

Questa è la ragione principale per cui essa rappresenta un’opportunità non sostituibile per i sindacati (e per converso per le associazioni datoriali): di essere riconosciuti come soggetto generale e politico e di poter contribuire alla regolazione politica del mercato. In secondo luogo – diversamente dall’approccio che ha prevalso nell’esecutivo Monti prigioniero dei tassisti e nel contempo restio a concertare – i grandi interessi organizzati sono qualitativamente, e non solo quantitativamente, diversi dalle piccole corporazioni che esercitano poteri di veto.

Essi infatti non sono da considerare – come insegna l’esperienza europea del novecento – come una complicazione dal punto di vista dell’interesse generale. Piuttosto queste organizzazioni (sindacali e datoriali in primo luogo) sono quanto più vicino ci sia nelle nostre società avanzate all’elaborazione d’interessi condivisi. E se sono incentivate a muoversi come risorsa positiva, esse aiutano a configurare e a perseguire beni pubblici che vanno oltre il bacino degli interessi dei loro rappresentati. Nelle diverse varianti gli accordi triangolari hanno mostrato difetti di metodo che possono essere mitigati o riformati.

Ricordiamone almeno due. Il primo è la frammentazione e lentezza del processo decisionale (in realtà una patologia che non costituisce la cifra abituale della concertazione). Ne abbiamo avuto una misura nell’esperienza dell’accordo del 2007, quando furono le divisioni interne al governo Prodi a rendere più accidentato e lungo l’avvicinamento all’intesa. Su questo aspetto si può agire fissando consensualmente vincoli temporali precisi e stringenti, che peraltro incontrano il nocciolo delle attese delle parti sociali. Il secondo è il rischio di decisioni molto centralizzate e trasmesse dal vertice alla base senza verifiche democratiche. In realtà nell’esperienza viva italiana sono state più volte attivate tecniche di democrazia partecipativa (consultazioni, referendum) tese proprio a ovviare a questo inconveniente.

Insomma il modello degli accordi concertati resta vitale se si vuole perseguire congiuntamente l’obiettivo di una maggiore efficienza economica e di una maggiore giustizia sociale. Il metodo della concertazione è perfettibile e può essere migliorato. Ma, come la democrazia, questo strumento sicuramente imperfetto appare preferibile alle altre opzioni in campo.