La luce dentro, nuovo documentario di Luciano Toriello, affronta il delicato tema della paternità vissuta in carcere: il rapporto complicato con i figli, spesso all’oscuro della condizione vissuta dal genitore e poco consapevoli riguardo ai concetti di reato e pena. Il film è stato prodotto dall’Apulia Film Commission ed è vincitore del Social Film Fund Con il Sud. Verrà proiettato in anteprima giovedì 20 febbraio alle ore 15, presso l’Aula dei gruppi parlamentari della Camera dei deputati.

Luciano Toriello, quando e come ti è venuta voglia di raccontare queste storie?

Da sempre mi sono occupato di temi sociali nella mia filmografia e ho lavorato spesso in collaborazione con il mondo dell’associazionismo. Nel caso specifico di questo progetto, Apulia Film Commission e Fondazione Con il Sud mi hanno dato un importante supporto nello sviluppo di un’idea legata a un mondo che osservavo da diverso tempo: le attività dell’Associazione Lavori in Corso, che opera intorno alla casa circondariale di Lucera, e di Paidòs Onlus, che da più di cinquant’anni assiste bambini che crescono in condizioni di disagio.

Si parla più spesso della situazione delle donne che vivono la maternità in carcere e dell’importanza di permettere loro di crescere i propri figli, anche in un contesto anomalo, come quello della detenzione. Tu hai scelto, invece, di concentrarti sulla genitorialità paterna. Come mai?

Credo che il rapporto che i padri detenuti instaurano con i propri figli sia un tema sottovalutato. Quando ho incontrato Simone e Gianni, i due bambini poi diventati i protagonisti del film, che studiano nel centro diurno di Paidòs, ho capito che avevano difficoltà di comunicazione con il padre. Quando non si vede per tanto tempo una persona, sia pure un familiare stretto, poi si hanno problemi a relazionarvisi. I due bambini mi hanno raccontato che non era loro permesso portare giocattoli all’interno del carcere, né disegni o colori. Questo mi ha fatto riflettere su quanto fosse difficile per loro e per il padre riuscire a comunicare con così pochi strumenti e per un tempo così breve. Ho chiesto allora come mai nella casa circondariale di Lucera e in altre realtà analoghe non ci fosse uno stimolo maggiore per favorire questi colloqui. Ho scoperto così l’Associazione Bambini senza Frontiere, che nelle carceri di alcune città settentrionali è riuscita a creare delle strutture adibite a questi incontri, dove i bambini possono giocare e disegnare mentre stanno con i genitori detenuti. Ho deciso allora di approfondire questo argomento, scegliendo come punto di vista quello dei bambini.

I bambini sono i veri protagonisti del documentario. Che tipo di percezione hanno del genitore che vive in carcere? Capiscono cosa vuol dire? Viene spiegato loro il senso del reato, della pena, della colpa?

Ho seguito più bambini, ma il mio lavoro è partito dall’incontro con un adulto che, durante l’infanzia, aveva vissuto l’esperienza traumatica di un genitore detenuto. Quando sua madre si è suicidata, a causa degli abusi subiti da parte del padre, lui si è trovato di colpo completamente perso, senza una famiglia. Tuttavia, scelse di sfuggire a tutte le forme di aiuto che gli erano state offerte e che si concretizzavano nel supporto da parte degli assistenti sociali o dall’accoglienza nelle associazioni. Da adulto, poi, si è ritrovato nei panni del padre, a vivere la stessa situazione da genitore. Molti dei figli dei detenuti che ho incontrato non conoscono la verità. Sono convinti che i genitori in carcere lavorino. Solo due di loro, Simone e Gianni, sono pienamente coscienti della situazione. Credo che proprio questa consapevolezza li aiuterà a superare più facilmente alcuni traumi man mano che cresceranno, perché non dovranno subire il contraccolpo della scoperta.

Tra i protagonisti c’è una bambina, accompagnata dalla mamma, che di notte va sotto la finestra del carcere e chiama suo padre.

Morena non sa che suo padre è un detenuto, pensa che lavori in carcere e lei viene di tanto in tanto a trovarlo da Bari a Lucera, viste anche le possibilità economiche limitate. Nell’esperienza di Morena emergono tutte le problematiche derivanti dalla pratica di tenere nascosta la situazione penale di questi detenuti ai loro figli. La bambina chiede continuamente del padre e continuamente le vengono dette bugie.

Questi bambini quindi non hanno un sostegno psicologico? Non c’è un approccio pedagogico, protetto, alle relazioni che i padri detenuti intrattengono in carcere con i rispettivi figli?

Assolutamente no, almeno per quanto riguarda molti dei casi che io racconto nel mio film. Simone e Gianni, invece, sono stati accompagnati e questo ha permesso loro di individuare nel tempo dei punti di riferimento, dei modelli positivi, grazie al lavoro di supporto svolto dalle associazioni che li seguono. Altri bambini, invece, sono abbandonati a loro stessi. Le madri non sanno dell’esistenza di questo tipo di supporti, vivono nell’abbandono e ciò genera non poche difficoltà.