Tra pochi giorni si celebrerà il decennale della privatizzazione dell’Iri. Un’occasione non rituale per riflettere su un evento – e sulla stessa storia dell’Iri – che ha tanto ancora da dirci, e da tanti punti di vista, sulla nostra attualità. Intanto perché l’istituto creato da Alberto Beneduce nel ’33 nacque anche come risposta “pubblica” agli effetti della terribile crisi globale del ’29, che molti per certi versi paragonano agli sconvolgimenti attuali. E poi perché per settanta anni l’Iri ha giocato un ruolo da protagonista, nel bene e nel male, nella storia della grande industria italiana, preparando nel tempo manager di sicuro valore e, nei suoi momenti più alti, perseguendo un’idea di governo pubblico dell’economia che ha contribuito a creare l’infrastrutturazione primaria del nostro paese.

Certo, nella storia dell’Iri c’è anche il peggio dell’Italia: i facili indebitamenti, le clientele, l’intreccio mortifero, specialmente a partire dagli anni settanta, con la politica. E tuttavia nel momento in cui la crisi pone l’esigenza di ripensare l’intervento pubblico sull’economia e di ridare valore alla produzione e al lavoro ragionare sull’Iri diventa necessario. E proprio di questo abbiamo scelto di parlare con un testimone d’eccezione: Patrizio Bianchi, economista, rettore dell’Università di Ferrara e neoassessore al Lavoro, università, ricerca, scuola e formazione professionale della giunta regionale dell’Emilia- Romagna.

Bianchi è stato membro del cda dell’Iri tra il 1997 e il 2000, con l’incarico specifico di privatizzare le aziende pubbliche italiane. “Mi rendo conto – racconta – di essere di parte, ma rivendico con forza quell’esperienza. Abbiamo realizzato in pochi anni le più grandi privatizzazioni della storia del paese, portando nelle casse dello Stato 120.000 miliardi di vecchie lire, l’equivalente di più di una Finanziaria, e il tutto senza conflitti e scontri sindacali. Con grande senso di responsabilità da parte dei sindacati e dei lavoratori, che del resto si è fatto di tutto per tutelare al meglio. Su tutto questo, però, manca ancora una seria riflessione”.

Il Mese Cosa insegna, oggi, il settantennio dell’Iri?

Bianchi Tante cose, a partire dalla sua genesi. L’Iri nasce nel ’33 di fronte a un’evidenza: la crisi del ’29 è l’ultimo episodio di un enorme cambiamento in atto nel mondo iniziato però dieci anni prima con la fine della Grande Guerra e che non si fu in grado di governare. Una crisi finanziaria, infatti, non è mai sufficiente per spiegare una crisi globale. All’epoca l’errore dei vincitori del conflitto mondiale fu nella cattiva gestione degli sconfitti e nella scarsa lungimiranza con la quale furono utilizzati i prestiti internazionali. Keynes non fu il profeta del giorno dopo: era dal 1918 che diceva che bisognava riprendere la matassa in mano.

Il Mese E oggi?

Bianchi La crisi del 2008 parte da lontano, con la caduta del Muro di Berlino; seguono poi tutta una serie di aggiustamenti che arrivano, nel 2001, all’accordo di Doha, quando parte una fase nuova della globalizzazione. La crisi si presenta come finanziaria ma dentro si porta il mancato aggiustamento operato rispetto a questi grandi processi internazionali. Oltre ai limiti di un’Europa divisa, in tutti questi anni Bush padre e Bush figlio hanno distrutto tutti gli strumenti di controllo finanziario, predisponendo così le condizioni della crisi attuale. L’intervento degli Stati per salvare le banche ha quindi finito per spostare la crisi sugli Stati stessi. La vicenda dell’Iri ci dice che se il tamponamento della crisi con interventi pubblici finanziari è necessario, tuttavia non basta. Se non si riprendono condizioni di capacità produttiva non se ne esce. E per tanti anni l’industria di Stato dell’Iri fece proprio questo. All’inizio, come è noto, si pensava che lo strumento dovesse essere temporaneo, limitato al salvataggio delle banche, che avevano tra i loro asset il grosso del sistema industriale italiano. Questi asset avrebbero dovuto essere rivenduti, ma presto, nel ’37, ci si accorse che nel paese mancava un management capace di gestire con efficienza queste grandi industrie strategiche, legate alla modernizzazione del paese (acciaio, locomotive, comunicazioni) e dunque l’Iri divenne un ente permanente e fu liquidato solo nel 2000.

Il Mese Non starà mica dicendo che serve un’altra Iri per uscire dalla crisi?

Bianchi Non dico questo. Innanzitutto, il ruolo del pubblico nell’economia moderna è necessariamente molto cambiato oggi, anche se faccio notare di sfuggita che in Francia la Renault è ancora proprietà dello Stato. Detto questo, penso che la vicenda dell’Iri insegni come prima cosa che il pubblico deve avere un ruolo di responsabilità e non di surrogazione nell’economia. Il nostro pubblico, invece, è stato sempre chiamato a intervenire per riparare agli errori fatti sia dalle aziende pubbliche che da quelle private. Interventi, naturalmente, operati con i soldi dei cittadini e non sempre a loro vantaggio: si vada a vedere, per esempio, quanti soldi in questi anni sono stati messi in Alitalia e quanti ne sono stati contemporaneamente tolti all’università.

Il Mese Tra le funzioni che svolse l’Iri nel suo periodo migliore ci fu quella di sviluppare, oltre alla grande industria di base, pure la grande infrastrutturazione del paese, quella per la quale i privati non hanno sufficienti risorse da investire. Oggi per esempio cita questi argomenti tra chi si oppone alla privatizzazione dell’acqua e dell’infrastrutturazione idrica…

Bianchi Esattamente. Le racconterò un aneddoto. Nel 1979 ebbi l’occasione di passare un’intera estate a Londra con Vittorio Foa, il quale mi spiegò molto bene quello che il Piano del lavoro della Cgil rappresentò per le prospettive del paese; e cioè che nel dopoguerra, oltre alla ricostruzione, era necessario inventare uno strumento di rilancio che partisse dall’idea forte del lavoro e della produzione. E noto con piacere che l’idea di un Piano del lavoro è stata rilanciata anche da Epifani durante il Congresso della Cgil. Se torniamo all’Iri, notiamo che il Piano Sinigaglia (che prevedeva un forte aumento della capacità produttiva della siderurgia nazionale, incentrato sulla ricostruzione dello stabilimento di Genova- Cornigliano e sull’integrazione verticale delle lavorazioni a Piombino e a Bagnoli, ndr) licenziato nel 1948 e del quale si parlò anche nella Costituente era permeato da questo spirito. Fu una grande idea rispetto alla quale si trovarono d’accordo sia gli industriali pubblici che quelli privati. Quindi: io non propongo una nuova Iri ma certo un’idea di intervento pubblico, di Piano del lavoro, in cui oggi l’infrastrutturazione da costruire sia quella che riguarda formazione, ricerca e innovazione, le chiavi per uscire bene dalla crisi. Insomma bisogna ripensare un asse scuola, università, ricerca, lavoro inteso non come pezzo di assistenza ma come chiave dello sviluppo. Se non lo facciamo, perderemo le sfide che abbiamo davanti.

Il Mese L’Europa, in fondo, un piano di questo tipo ce l’ha, quello di Lisbona.

Bianchi Ma è stato bloccato. Perché nessuno dei governi crede oggi all’Europa. Gli stessi che nei giorni scorsi all’Eurogruppo si sono presentati come salvatori dell’Unione non ci hanno in realtà mai creduto, e oggi lamentano il fatto che l’Europa non c’è.

Il Mese Ma non ha nulla da rimproverare all’Iri?

Bianchi Certo, anche i difetti erano tanti, a partire da quello che a un certo punto divenne un abbraccio devastante con la politica. Ci furono pure tanti errori: Gioia Tauro e certe sortite di Finmeccanica e Ansaldo che a un certo punto hanno smarrito la linea strategica. Però sono tutti fatti circoscrivibili e di cui si possono ben distinguere e riconoscere le singole responsabilità.

Il Mese Negli anni settanta, però, l’Iri si caricò di debiti con le banche. Nel ‘76 tutte le aziende del settore pubblico chiusero in perdita…

Bianchi Sì, ma lei dimentica una cosa fondamentale. E cioè che l’Iri ha funzionato in quel periodo da ammortizzatore alla più grande crisi industriale che si è verificata in Italia, tra il 1975 e il 1985: quella conseguente allo shock petrolifero. Quindi è vero che l’Iri arriva alla fine degli anni novanta pesantemente indebitata, ma dentro a quel debito c’era tutto il costo della crisi. E questo nessuno lo ha ancora mai riconosciuto.

Il Mese Ci racconti di quei tre anni in cui lei contribuì alla liquidazione dell’Iri.

Bianchi Capisco di sembrare scarsamente oggettivo, ma io quel lavoro fatto con la presidenza del cda prima di Gros Pietro e poi di Gnudi – con Prodi presidente del Consiglio e Ciampi ministro del Tesoro – lo rivendico con orgoglio. D’altro canto, gli unici tre dossier che non abbiamo dovuto affrontare noi, Telecom, Alitalia e Finmare (Tirrenia, ndr), rappresentano questioni ancora problematiche. Se Alitalia fosse stata privatizzata allora, come noi pensavamo dovesse farsi, probabilmente non ci saremmo ritrovati in questa situazione. Stessa cosa vale per Tirrenia e Telecom. Aggiungo che quella dell’Iri è stata la più grande operazione di privatizzazione nella storia del paese, mentre chi si riempie la bocca di slogan come “Meno Stato, più mercato” poi, come nel caso Alitalia, procede in direzione esattamente opposta.

Il Mese Cosa resta delle aziende Iri?

Bianchi Se lei prende i primi venti gruppi italiani di oggi, vedrà che sono o discendenti diretti dell’Iri o fortemente impregnati di cultura Iri: per esempio Telecom, Autostrade e soprattutto Finmeccanica, che resta di gran lunga l’impresa italiana più dinamica. Per il resto non c’è un granché. A parte la Fiat, con le sue travagliate vicende, la Pirelli certo è ancora gestore di attività importanti ma non più centrali per il paese, l’Olivetti sappiamo la fine che ha fatto e tutte le altre grandi imprese chimiche si sono via via dissolte. Per non parlare dei nuovi miti industriali del gruppo Gardini e di Parmalat. Sono il primo a riconoscere i meriti in Italia di un’imprenditoria di piccola e media dimensione, ma quando si pensa alla grande impresa italiana una riflessione sulla storia dell’Iri la si deve ancora fare.