Il libro “Senza lavoro” di Manfredi Alberti (Laterza, 2016), raccontando la storia della disoccupazione dall’Unità d’Italia sino ai giorni nostri, si situa a metà strada tra lo studio delle politiche pubbliche che hanno tentato di ridurla – con poco successo, in verità – e l’analisi dell’intreccio tra la diversa percezione del fenomeno stesso. In questo, va detto, il libro si discosta abbastanza dagli armamentari metodologici tipici di storici sociali come H. Guttman o E.P. Thomson che hanno ricostruito il divenire delle classi operaie in America e in Inghilterra “dal basso”, partendo dalle storie locali, e cerca invece di affiancare al fenomeno sociale anche le risposte politiche e l’influsso dei costumi e i modi di pensare delle diverse epoche.

Alberti prende origine nella sua analisi dalle parole di Marx, secondo cui la disoccupazione è indispensabile per l’esistenza del sistema capitalistico. Il quale ha necessità che il lavoro non sia né stabile, né sufficiente per tutti, altrimenti non si avrebbe la competizione tra lavoratori indispensabile per massimizzare il profitto dell’imprenditore tramite la moderazione salariale. In tal senso, le innovazioni tecnologiche e organizzative permettono di stravolgere i metodi di lavoro, ridurre la necessità di manodopera, mantenendo una quota consistente di disoccupazione e soprattutto espandere la produzione. Non a caso Keynes, che Alberti cita in più passaggi, era convinto che il capitalismo non può raggiungere mai la piena occupazione, che necessita invece di robusti investimenti pubblici intesi a riassorbire la disoccupazione.

Questo ruolo della precarietà occupazionale deve però essere il più possibile nascosto e reso “fisiologico”: quindi, la prima scoperta della disoccupazione involontaria avviene tardi in Italia, sul finire dell’Ottocento. Sino ad allora si preferiva disegnare il senza lavoro in termini moralistici, come uno sfaccendato che rifiutava la fatica e preferiva vivere di carità ed espedienti. E che quindi andava punito e riadattato ai metodi del vivere civile. Che la situazione fosse tutt’altra lo dimostrano vari fenomeni, come i flussi migratori che hanno contraddistinto il periodo tra la fine del secolo e l’inizio di quello nuovo. Milioni di nostri connazionali, disoccupati agricoli, hanno lasciato l’Italia per cercare fortuna nei paesi maggiormente industrializzati. Solo nel 1913 furono registrate 870mila migrazioni.

L’affinamento dei metodi di indagine statistica contribuisce a mostrare in un’ottica nuova la disoccupazione e comincia ad affiorare, seppur in maniera tutt’altro che certa, l’entità del fenomeno (secondo alcune stime, dopo la Grande Crisi del 1929 i disoccupati in Italia raggiunsero il 15% della forza lavoro), anche la sua distribuzione sul territorio (con un divide tra aree più e meno industrializzate), per genere (con le donne più penalizzate a partire dall’età feconda). Soprattutto ci si rende conto dell’indispensabilità degli interventi sul territorio, che richiederebbero ingenti investimenti per il potenziamento degli uffici dell’impiego: secondo la Società Umanitaria di Milano, in quella città le strutture pubbliche riuscivano a collocare solo tra l’8 e il 9% dei disoccupati (per inciso, si tratta di un risultato migliore di quello odierno).

Ma la conoscenza statistica del fenomeno della disoccupazione involontaria, anche dopo la nascita dell’Istat, avvenuta nel 1926, non fa in Italia significativi passi avanti, soprattutto per la volontà del regime fascista di mascherare il fenomeno, non certo lusinghiero. Bisogna attendere il dopoguerra e gli anni cinquanta per scoprire le caratteristiche peculiari del “modello italiano” di disoccupazione, che penalizza in particolare le donne, i giovani e chi abita al Sud.

Essendo impossibile dare ragione estensivamente dei molti stimoli che vengono dal volume, bello e documentato, di Alberti, vale la pena di saltare all’analisi dei tempi recenti, caratterizzati da una conoscenza approfondita dei meccanismi della disoccupazione, in particolare: la scoperta del fenomeno dello “scoraggiamento”, che porta molti disoccupati a non cercare più lavoro, generando in tal modo una riduzione apparente dei tassi di disoccupazione; l’enorme numero di Neet, giovani sotto i 30 anni che vivono in un limbo fatto di assenza di lavoro e di percorsi formativi.

Infine, il fenomeno della precarietà, che interessava, sino all’entrata in vigore del Jobs Act, oltre 3 milioni di occupati con contratti a termine (ora sono molti di più, in quanto è possibile interrompere con facilità nei primi tre anni anche i contratti di durata indeterminata). Fenomeno questo di particolare gravità sociale, in quanto alla precarietà lavorativa si associa una riduzione dei diritti di cittadinanza, che porta a “rimandare” l’ingresso nell’età adulta, la convivenza e il matrimonio, la scelta di avere un figlio. Con le conseguenze che demografi attenti come Alessandro Rosina segnalano da anni: quello di aver creato un Paese vietato ai giovani, sempre più vecchio, ingiusto e a rischio.

Arrivati all’ultima pagina del volume di Alberti si viene travolti dalla sensazione di inadeguatezza del nostro Paese a fronteggiare i problemi sistemici. Colpisce, in particolare, che la conoscenza dei processi del mercato del lavoro non abbia influito neanche marginalmente sulle scelte politiche. La decisione, perseguita a partire dagli anni ottanta, di deregolamentare il rapporto di impiego per introdurre flessibilità (intesa come facilità di licenziare e assumere con contratti precari) e mantenere bassi i salari, rispondeva a una precisa ideologia neoliberista, che si nascondeva dietro la menzogna che, diminuendo le tutele dei lavoratori, si poteva ottenere più occupazione.

Che si tratti di un falso, è dimostrato da prove evidenti: il tasso dei senza lavoro tra le donne è, nonostante il forte avvicinamento degli anni recenti dovuto più all’evoluzione culturale della società che a politiche mirate, sensibilmente più elevato di quello dei maschi (vedi il grafico), mentre il tasso di attività femminile è di 20 punti più basso di quello maschile; la disoccupazione tra i giovani supera il 35%, tre volte il valore medio, e il 56% dei lavori che questi svolgevano nel 2014 erano precari; il Sud è gravato da una disoccupazione al 20%, oltre il doppio di quella che si misura al Nord. Ciò mentre il tasso di occupazione, cioè la percentuale di popolazione che ha un lavoro qualsiasi, è appena al 42%, contro una media nazionale, già bassa rispetto all’Ue, del 56%. Ciononostante non vi sono segnali reali di cambiamento: come nota Alberti nelle conclusioni del volume, “il Jobs Act varato dal governo Renzi non è che l’ultima tappa di questo percorso”. Una tappa che si sta rivelando costosa e sostanzialmente inutile, per cui dannosa.

Grafico: Tasso di disoccupazione 1977-2011

Fonte: Istat, http://seriestoriche.istat.it

Nota: la definizione di disoccupato si modifica nel corso degli anni; in particolare, fino al 1992, i disoccupati si riferiscono ai quattordicenni e oltre, dal 1993 al 2003 ai quindicenni e oltre, dal 2004 alle persone nella classe di età 15-74 anni.

Patrizio Di Nicola insegna Sociologia dell’organizzazione e dei sistemi avanzati alla Sapienza Università di Roma