L’area politiche economiche della Cgil ha elaborato un nuovo indicatore, l’Indice di ripresa della domanda effettiva (Iride), che esprime il rapporto fra la variazione della domanda interna (misurata come somma di consumi e investimenti) e la dinamica della produttività e del benessere del Paese (misurata con il Pil pro-capite). Nel secondo numero dell’Almanacco dell’economia, a cura del sindacato di corso d’Italia, si legge che nell’ultimo trimestre 2015 l’Iride risulta pari a zero, riflettendo il rischio di entrare in una fase di stagnazione, e non di ripresa, attutita solamente da un aumento dei consumi delle famiglie, il cui contributo alla crescita della domanda aggregata però potrebbero essere neutralizzato dall’annunciata flessione delle esportazioni e della produzione industriale (malgrado il ribasso dei costi dell’energia), già in calo congiunturale e tendenziale a novembre dello scorso anno. A seguire (in allegato grafici e tabelle) pubblichiamo il secondo numero dell’Almanacco.

Insiste la crisi della domanda effettiva. Abbiamo più volte sottolineato come la ripresa non sia il semplice cambio di segno del Pil e degli altri aggregati economici vedi La ripresa dell’anno dopo. Di certo, per uscire dalla crisi occorre cambiare – e non “riprendere” – il modello di sviluppo vedi il Libro rosso Cgil. Tuttavia, per parlare anche solo di ripresa tecnica, occorre ragionare di recupero dei livelli di crescita e di occupazione precedenti alla crisi (nella tabella dell’Almanacco, con riferimento alla colonna che indica il livello pre-crisi 2007). Quindi, per misurare e visualizzare la direzione effettiva dell’economia italiana verso il recupero di livelli pre-crisi si può calcolare se l’andamento congiunturale, ancorché favorevole, colmi o meno i vuoti di domanda e le debolezze dell’offerta di cui soffre il sistema-paese. A tale scopo, facendo appello alla teoria economica, abbiamo elaborato un indicatore, l’Indice di ripresa della domanda effettiva (Iride), che esprime il rapporto fra la variazione della domanda interna (misurata come somma di consumi e investimenti) e la dinamica della produttività e del benessere del Paese (misurata con il Pil pro-capite). Lo scopo dell’Iride è di predire la “risposta” della domanda effettiva al cambiamento delle variabili sociali, istituzionali e tecnologiche impresso dalle politiche pubbliche nel breve periodo. L’Iride corrisponde a un numero che oscilla tra 1 e -1. Per semplificazione espositiva abbiamo scelto di approssimare i risultati a 5 possibilità, in relazione alle ipotesi di significatività e allo spirito d’immediatezza dell’Almanacco: positivo (Iride = +1 e simbolo con due occhi di colore verde); parzialmente positivo (Iride = +0,5 e simbolo con un occhio verde); stazionario (Iride = 0 e simbolo con occhi di colore giallo); parzialmente negativo (Iride = -0,5 e simbolo con un occhio rosso); negativo (Iride = -1 e simbolo con entrambi gli occhi di colore rosso).

Verificando sul passato la validità dell’Iride attraverso l’applicazione alla serie storica dei conti nazionali trimestrali nel periodo 2002-2015 (come illustrato nel grafico precedente), si evidenzia con efficacia – e anche con anticipo – l’effettiva capacità del sistema economico italiano di crescere prima della crisi (in cui l’indice mediamente è pari a 1) e di riprendere a crescere o meno dopo la crisi (in cui, finora, mediamente l’indice è pari a -1). In particolare, nell’ultimo trimestre 2015 l’Iride risulta pari a zero, riflettendo il rischio di entrare in una fase di stagnazione – e non di ripresa – attutita solamente da un aumento dei consumi delle famiglie, il cui contributo alla crescita della domanda aggregata, però, potrebbero essere neutralizzato dall’annunciata flessione delle esportazioni e della produzione industriale (malgrado il ribasso dei costi dell’energia), già in calo congiunturale e tendenziale a novembre 2015. La flessione della produzione industriale, peraltro, interessa l’intera area euro.

Il rebus sulle previsioni di Confindustria, purtroppo, è di facile soluzione. Il Centro studi di Confindustria (CsC), il 16 dicembre 2015, ridimensiona le previsioni di crescita per l’economia italiana – dopo tutti i principali istituti nazionali e internazionali – sottolineando che la congiuntura economica favorevole potrebbe essere giunta al termine e che “il vero rebus è il mancato decollo della ripartenza italiana”. Ma non c’è alcun rebus. Rispetto al quadro macroeconomico 2015-2018 del governo – sulla base delle quali è stata calcolata la sostenibilità finanziaria della Legge di stabilità 2016 – il CsC prevede per i prossimi anni una più alta disoccupazione e una minore inflazione, data la prevista flessione delle esportazioni e la debolezza della domanda interna. Precedentemente, la Confindustria – così come il governo – aveva sottovalutato le cause e le conseguenze della deflazione. Sin dall’inizio della crisi la Cgil ha compreso la natura strutturale della crisi e il grave errore nella scelta delle politiche di austerità, che non a caso hanno aggravato la crisi di domanda e indebolito ulteriormente l’offerta produttiva, moltiplicando recessione e disoccupazione, oltre che innescare il rischio della deflazione in tutta Europa vedi Nemmeno l’austerità flessibile può funzionare. Considerando anche le debolezze strutturali dell’economia italiana, si può ridare slancio alla crescita e all’occupazione solo attraverso un nuovo intervento pubblico, come quello delineato nel Piano del lavoro della Cgil, ovvero una politica economica di “produzione di lavoro a mezzo di lavoro”.

La crisi occupazionale è ancora forte. Malgrado la propaganda governativa, gli ultimi dati sulle forze di lavoro restituiscono un quadro ancora allarmante. A novembre, alla lieve riduzione del tasso di disoccupazione corrisponde un calo dell’occupazione giovanile e un aumento dell’inattività.  Anche l’ultimo dato dei conti nazionali (terzo trimestre 2015), che descrive la tendenza dell’occupazione attraverso l’analisi delle unità di lavoro, indica che non c’è nessun aumento dei posti di lavoro. Nonostante i 7 miliardi di euro di incentivi previsti nella precedente Legge di stabilità (sgravi contributivi per nuove assunzioni e deduzione Irap del costo del lavoro indeterminato), l’incremento annuo dei lavoratori permanenti riguarda meno di 71 mila occupati; a fronte di un nuovo aumento dei lavoratori a termine, pari a circa 115 mila occupati. Oltre le trasformazioni di contratti precari o autonomi e il mero incontro domanda/offerta di lavoro (posti vacanti), per tornare ai livelli pre-crisi restano ancora “da occupare” almeno 900 mila persone, contando i posti di lavoro perduti nella crisi, i nuovi inattivi e le forze di lavoro potenziali. Per questo la Cgil insiste sulla necessità di un piano straordinario di occupazione giovanile e femminile, una modifica radicale della riforma Fornero e una nuova qualificazione del lavoro attraverso un nuovo Statuto dei diritti dei lavoratori e delle lavoratrici come la Carta dei diritti universali del lavoro proposta dalla Cgil.

I vuoti della domanda e la tenuta salariale. Con il ridimensionamento del commercio internazionale e la frenata dell’export, la politica economica del governo scommette tutto sugli investimenti fissi delle imprese e sui consumi delle famiglie. La riduzione delle tasse alle imprese (oltre 10 miliardi solo nel 2015) ancora non ha generato un aumento degli investimenti, sebbene profitti, fatturato e ordinativi siano in aumento. Investimenti pubblici e consumi della Pa restano negativi. A detta anche dell’Eurostat i consumi privati rappresenteranno la componente principale della crescita congiunturale, sostenuti dalla caduta del prezzo del petrolio e dall’incremento dei redditi da lavoro. In Italia, la variazione positiva de consumi è da attribuire all’aumento del potere d’acquisto, realizzato soprattutto grazie a due leve: il bonus Irpef di 80 euro previsto dal governo nel 2014, che però gli italiani hanno prevalentemente risparmiato; i rinnovi contrattuali – precedenti a regime e nuovi – che hanno aumentato progressivamente il livello dei redditi da lavoro oltre l’inflazione, alimentando anche l’aspettativa nel tempo di tale incremento del reddito familiare disponibile. Per questo è indispensabile rinnovare i ccnl scaduti e aprire una nuova stagione contrattuale all’insegna di “un moderno sistema di relazioni industriali, per uno sviluppo economico fondato sull’innovazione e la qualità del lavoro”.

Questione di aspettative, altro che fiducia. L’Indice Istat del clima di fiducia dei consumatori e delle imprese è stato spesso utilizzato con enfasi dal governo e dai principali mezzi di comunicazione per affermare il “cambio di verso” dell’economia italiana verso la ripresa. In effetti, tale indice nel corso del 2015 ha registrato importanti variazioni positive. Eppure, nella maggior parte dei casi a tali variazioni non ha seguito un aumento consistente dei consumi o degli investimenti. In ogni caso, a dicembre 2015, l’Indice Istat del clima di fiducia dei consumatori e delle imprese diminuisce. La fiducia rappresenta un elemento centrale nella teoria economica liberista, che fonda la capacità di riprodurre crescita e occupazione sull’attitudine del mercato di autoregolarsi. Pertanto, la cosiddetta “economia della psicologia” su cui si basa il condizionamento del clima di fiducia potrebbe bastare a indurre le famiglie a spendere e le imprese a investire. Ma la realtà si basa sulle aspettative, non sulla fiducia. Le aspettative rappresentano un’indicazione delle attese e delle proiezioni degli imprenditori e dei consumatori baste su fatti reali, quali gli aumenti del reddito, dell’occupazione, degli investimenti pubblici e dei consumi collettivi. Di fatti, l’Indagine sulle aspettative delle imprese condotta dalla Banca d’Italia a dicembre 2015 riporta un peggioramento delle attese sull’inflazione e sull’andamento dell’economia, nonché un ristagno della propensione a investire e ad assumere (di fatti, sono tornati a calare i prezzi alla produzione).

La Fed aumenta i tassi, la Bce si prepara al secondo Qe, ma la deflazione non è scongiurata. L’andamento pesantemente negativo dei prezzi alla produzione industriale e la chiusura del 2015 con un’inflazione pari a 0,1% indica che il rischio deflazione è ancora alle porte. Anche il Quantitative easing della Banca centrale europea si è tradotto in un gigantesco acquisto di titoli pubblici da parte delle banche private e così in un immenso “parcheggio” di liquidità che, dai calcoli del Cer, gli stessi istituti di credito dellʹarea euro avrebbero poi ridepositato per 2/3 presso la Bce, riducendo lʹimpatto potenziale di questa misura sullʹeconomia reale. D’altra parte, la dichiarazione di insufficienza della politica monetaria era già stata redatta con l’annuncio dell’innalzamento – pur graduale – dei tassi di interesse da parte della Fed, che scommette sulla ripresa dell’economia Usa e intende arginare la speculazione finanziaria che si agita attorno ai tassi vicino allo zero. In realtà, come testimoniano i dati Ocse, tutti i principali paesi industrializzati registrano un’inflazione molto bassa e subiscono la scelta di una competitività di costo, intrapresa soprattutto dall’Europa, basata sulla guerra tra valute e la svalutazione del lavoro, che accentua le tensioni geopolitiche internazionali.