E’ noto che la contrattazione è sempre l’altra faccia dello stato competitivo di un’impresa, di un territorio, di un Paese. Di per sé essa non è mai un fatto di tecnica contrattuale bensì la capacità di redistribuire i margini di produttività e di ricchezza che un sistema riesce a produrre. Anche per questo non ha alcun senso la sua aggettivazione. Definirla offensiva o difensiva significa solo mutuare un vecchio vocabolario novecentesco per applicarlo ai fatti economici. Va da sé che se il sistema produce margini allora la contrattazione si concentrerà, per ridistribuirli, in forma di salari, di occupazione e di miglioramento dei diritti normativi. Nel caso contrario è altrettanto evidente che bisognerà intervenire sul rapporto produzione, ore lavorate ed organici per redistribuirli verso nuovi equilibri di sistemi di orari e di volumi occupazionali.

Nelle Marche,
ma non solo, da anni la crisi ha imposto il secondo modello e la straordinaria e storicamente diffusa capacità contrattuale del sindacato marchigiano, è stato lo strumento fondamentale per essere riusciti a contrattare al meglio la crisi e a non far precipitare ancora più giù gli indici della disoccupazione e della crisi sociale. Perché la crisi nelle Marche è davvero seria ed inedita. Inedita perché non è solo crisi di mercato ma anche crisi di modello. Detto in altre parole le Marche si trovano in una terra di mezzo, tra un ciclo economico che si è definitivamente chiuso ed un altro che non si riesce ad aprire. Che si sia chiuso un ciclo è certo perché tutti gli elementi che lo avevano contraddistinto sono stati letteralmente spazzati via da quel micidiale binomio che si è affermato negli ultimi dieci anni.

La mondializzazione del commercio ha colpito al cuore un modello produttivo centrato su una dimensione troppo minuscola delle imprese per competere nella nuova dimensione del mercato e la crisi finanziaria ed economica che l’ha seguita, a messo a nudo l’eccessiva sottocapitalizzazione delle imprese che si è scontrata con la penuria di credito, oltre ad una predisposizione di un sistema volto per oltre il 90% al mercato interno proprio nel momento in cui si verificava il crollo della domanda. Entrambi questi fenomeni hanno bloccato il sistema di accumulazione e messo in ginocchio i distretti e l’apparato produttivo. Bloccata l’accumulazione si sono così azzerati i margini redistributivi e quindi è entrato in crisi il modello sociale marchigiano, noto per la sua qualità e la coesione sociale.

Contemporaneamente le poche grandi imprese presenti – l’elettrodomestico bianco, la cantieristica, le multinazionali situate nella vallata del Tronto non hanno fatto da contrappeso alla crisi dei distretti, perché anche loro, sia pure per ragioni diverse, sono andate in crisi aggravando così la situazione generale. Entrate in crisi per l’incapacità all’innovazione di prodotto e di processo per il declino di una imprenditorialità non più né capace né disposta ad investire ed intraprendere vedi Fabriano o per il calcolo delle imprese multinazionali che si erano ubicate nella fascia di territorio ascolano al solo fine di lucrare gli incentivi della ormai ex Cassa per il Mezzogiorno, cessati i quali hanno compiuto la scelta della chiusura degli impianti e del loro trasferimento. Per tutto questo le Marche sono in crisi strutturale con un rischio tremendo, quello per cui in assenza di un rilancio della struttura produttiva, le eccellenze che pure ci sono, nel calzaturiero come nel mobilificio, nella meccanica come nella nautica sono diventate preda di grandi imprese straniere che vengono in questa regione al solo fine di fare shopping, non internazionalizzando il sistema marchigiano, ma sradicandolo, offuscando così anche una possibile prospettiva industriale.

L’internazionalizzazione in un mercato aperto è ovviamente un dato fisiologico, ma alla sola condizione di essere basato sulla reciprocità, quando invece è a senso unico, produce solo l’immiserimento di un territorio ed il suo rischio di trasformarsi rapidamente da produttore industriale a contoterzista subalterno. E’ in questo scenario terribile, di una regione in crisi di futuro, che ha operato contrattualmente il sindacato marchigiano, facendo in alcuni casi veri e propri miracoli per la difesa non solo dei lavoratori, ma anche delle fasce più deboli della popolazione. La capacità cioè di non solo contrattare orari ed organici nelle imprese e nelle filiere, ma anche di sviluppare un volume eccezionale di contrattazione sociale, a livello regionale e comunale, affiancando così accanto alla contrattazione delle categorie, quella confederale e del sindacato dei pensionati. Questo esercizio, peraltro nelle Marche consolidato, di contrattazione sociale è stato davvero prezioso perché ha permesso, in questa fase di crisi, in cui diveniva complesso difendere i salari, almeno di difendere il reddito dei lavoratori e pensionati, intervenendo sulle tariffe, sulla modulazione delle imposte locali, sulla sanità ed il prezzo dei trasporti, sull’accesso agli asili nido e alla protezione per i non autosufficienti. È tuttavia evidente che tutto ciò non sarà più sufficiente per il notro futuro. Perché la sfida che ci è davanti è quella della ricostruzione dei margini di ricchezza di un territorio come la condizione stessa per tornare ad una contrattazione capace di generare salari, diritti e coesione sociale. Sono due le vie che bisognerà battere. La prima riguarda lo spazio contrattuale a disposizione delle rsu per qualificare la contrattazione nei luoghi di lavoro.

Attenzione questo è davvero un punto fondamentale
. Le materie ed i poteri di intervento dei delegati sui luoghi di lavoro, non solo applicativi ma anche modificativi delle prescrizioni dei contratti nazionali diventano oggi essenziali come la condizione stessa per ricostruire nuove intese tra impresa e lavoro e per far aderire meglio la contrattazione alle specificità delle produzione e del loro diverso rapporto con il mercato. Su questo punto le novità introdotte nel Testo unico oggi diventano fondamentali, a condizione che il calendario di attuazione previsto nell’accordo di gennaio, non accumuli colpevoli ritardi e che nei rinnovi contrattuali ciascuna categoria sappia disciplinare bene il rapporto fra i due livelli ed abbia il coraggio di spostare con decisione il baricentro della contrattazione nelle imprese e nei territori. Questa è stata la condizione, ad esempio, con la quale il sindacato tedesco è riuscito a rilanciare il proprio potere contrattuale ed a difendere meglio salari ed occupazione oltre che a contribuire al rilancio della competitività di quel paese. Sono state proprio le deroghe contrattuali dei chimici nel 2003 e quelle dei metalmeccanici del 2005 a spostare il baricentro verso i luoghi di lavoro che, come storia dimostra, ha rappresentato la benzina della ripresa. Questo è dunque il primo punto che ci sta davanti. Ma esso sarebbe, nelle Marche, insufficiente se non affiancato da una seconda azione necessaria. Contrattare nelle imprese è esiziale, ma quando si opera in una realtà contrassegnata da una struttura produttiva basata sui distretti, il livello territoriale diventa quello fondamentale.

Ma la contrattazione territoriale non può più essere quella tradizionale, perché le imprese nelle Marche non sono andate in crisi solo per i loro prodotti. Sono andate in crisi per la carenza di innovazione e quindi di ricerca, sono andate in crisi per la carenza del credito bancario, hanno dovuto fare i conti con un sovraccarico di costi derivanti dalle inefficienze delle reti materiali, energia, trasporti e digitale e di quelle immateriali a partire dalla qualità della formazione professionale. Dunque il rilancio della contrattazione territoriale passa dalla capacità non solo di contrattare sui luoghi di lavoro, ma al contempo di contrattare tutte le diseconomie esterne che esistono nei territori. Non è più sufficiente contrattare solo con i singoli imprenditori se non siamo in grado di aprire tavoli di negoziazione con tutti i soggetti economici che, a vario titolo, agiscono in un territorio. Solo in questo modo contrattazione territoriale unita a quella sociale possono avere l’ambizione di aprire un nuovo ciclo di sviluppo e di coesione sociale. Un terreno inedito sicuramente ma anche ineludibile. Un terreno che ha bisogno di una nuova leva di delegati e di un sindacato capace di misurarsi con il futuro e non solo di custodire il passato. Per farlo serve anche una stagione straordinaria di formazione dei nostri quadri per fornire ed arricchire il loro bagaglio di conoscenze sui nuovi strumenti ed i nuovi spazi con cui sono chiamati a cimentarsi. D’altronde questo riadeguamento anche culturale del sindacato, non è solo un esercizio di tecnica contrattuale, ma anche un nuovo orizzonte aperto davanti a tutto il sindacato italiano, perché la lacerazione ingiusta, sterile e violenta che comunque è stata introdotta tra sindacato ed economia, ha bisogno rapidamente di trovare un nuovo spazio qualificato e solidale tra sindacato e produzione e quindi tra sindacato e ricchezza di questo Paese, come la condizione stessa per costruire il nostro futuro.