L’ennesima cattiva notizia sullo stato del capitalismo italiano. È l’opinione di Gianfranco Viesti sull’operazione che ha portato la Pirelli sotto il controllo del gruppo asiatico ChemChina. Professore ordinario di Economia applicata all’Università di Bari, studioso di economia industriale e politiche di sviluppo, alle spalle collaborazioni con l’Ocse, la Banca mondiale, il governo italiano. Tra i suoi ultimi lavori editoriali “Cacciavite, robot e tablet”, dove per i tipi de “il Mulino” ha affrontato con il giornalista Dario Di Vico il tema del declino industriale italiano e il ruolo che dovrebbero svolgere le politiche pubbliche per sostenere l’innovazione e la competitività internazionale delle imprese.

Rassegna Professor Viesti, Pirelli non è la prima grande impresa italiana che finisce in mano straniera negli ultimi anni. Qual è il suo giudizio?

Viesti Non può che essere negativo. Qui non siamo in presenza di una realtà debole che ricorre a capitali stranieri per rilanciarsi e crescere. I cinesi comprano Pirelli perché attratti dal marchio, dal business. Mi chiedo: non ci sono in Italia capitali e imprenditori sufficienti per garantire il controllo di un’azienda di successo? Se la risposta fosse negativa avremmo serie ragioni per dirci tutti preoccupati.

Rassegna Dal governo italiano nessun commento sull’operazione Pirelli-ChemChina…

Viesti Ecco, il primo a essere molto scontento dovrebbe essere proprio il governo. Dobbiamo accettare il fatto che in Italia non siamo più capaci di avere il controllo delle grandi industrie? Beh, credo che se così fosse non saremmo in presenza di un argomento da poco, ci sarebbero ragioni per una discussione in Parlamento.

Rassegna Nei suoi studi segnala come il contributo delle imprese straniere all’economia italiana è molto inferiore a quanto accade ad altri grandi paesi europei, ma nel caso Pirelli siamo in presenza di altro.

Viesti È così, bisogna distinguere. Capitali e imprese straniere sono i benvenuti nel nostro paese. Ma un conto sono gli investimenti che credono nell’Italia come luogo nel quale produrre per vendere poi in tutto il mondo in maniera competitiva. Altro è l’acquisizione di aziende che già operano anche con risultati importanti. Provano a tranquillizzarci ricordando che il centro decisionale rimarrà in Italia, ma sinceramente sono poco interessato alle sorti dei manager. Avrei preferito un controllo coincidente con il management, ma così non è.

Rassegna Lei sostiene da tempo la necessità per il paese e il suo sistema produttivo di una politica industriale nuova. Anche la Cgil denuncia da anni la totale assenza del tema nell’agenda politica. Perché accade secondo lei?

Viesti È difficile rispondere a questa domanda. Faccio due ipotesi: la prima è perché le politiche industriali prevedono strategie di lungo respiro. Per vederne i primi risultati servono tra i 5 e i 10 anni. Al contrario, la politica ha in Italia un orizzonte di corto respiro. La seconda ipotesi è forse più maliziosa e mi porta a pensare che in assenza di un quadro definito di regole, è possibile prendere di volta in volta decisioni e soluzioni ad hoc, utili solo a qualcuno. Penso per esempio al fondo di sostegno di Tremonti per il salvataggio della Parmalat. Vero è che casi eccezionali possono richiedere interventi discrezionali, ma serve un quadro di regole e obiettivi certi.

Rassegna Tra le dinamiche utili a sostenere la crescita e l’innovazione del sistema produttivo nel nostro paese, lei segnala gli investimenti sul lavoro, sui giovani, su professionalità qualificate. Ritiene che il Jobs Act governativo affronti questi aspetti?

Viesti Guardi, si fa un gran parlare di riforme nel nostro paese, ho avuto modo di definirlo un vero e proprio “supermarket”, ma il reparto più pregiato, quello che ha effetti duraturi sulla crescita, stranamente resta chiuso. Penso agli investimenti sul capitale umano, sulla formazione, sulla ricerca. In questo campo abbiamo, piuttosto, una tendenza autolesionistica, si fa piccolo cabotaggio. Ecco, credo che sia quanto mai utile, anzi necessario, non smettere di parlare in pubblico, ad alta voce, di questo pezzo fondamentale di riforme che serve all’Italia, sempre se vogliamo restare uno dei paesi leader nel mondo.