Nella giornata della sua commemorazione, pubblichiamo un articolo che Massimo D’Antona scrisse per "Rassegna Sindacale", n.15 del 23 aprile 1995. A 20 anni di distanza le sue riflessioni sono ancora di sorprendente attualità

II Cavalier Berlusconi non ha tempo per leggere la Costituzione. Dagli appunti dei suoi collaboratori deve aver capito che nell’articolo 1 sta scritto un solo precetto: la sovranità appartiene al popolo. Invece, come sanno gli italiani che hanno tempo per queste cose, la Costituzione è aperta all’articolo 1 da due precetti, i quali assumono significato solo se si legge il testo costituzionale per intero.

Il primo dice che l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro. Il secondo che la sovranità appartiene al popolo, il quale la esercita nei modi previsti dalla Costituzione. Sulla sovranità popolare è evidente che gli appunti del Cavaliere erano carenti: il popolo esercita la sua sovranità nella forma del governo parlamentare, non plebiscitario. Sulla Repubblica “fondata sul lavoro” non conosciamo il pensiero del Cavaliere.

Non vi è dubbio però che in un passaggio epocale come quello presente, in cui la stessa identificazione tra la nazione e la Costituzione repubblicana viene revocata in dubbio, nessuno (dal Cavaliere in giù) può dare per scontato il senso di quel “fondata sul lavoro”, ossia, per essere più espliciti, del nesso tra il lavoro e il vincolo di cittadinanza che ci impegna in quanto italiani.

In prospettiva storica, “Repubblica fondata sul lavoro” attenua la formula “Repubblica di lavoratori” per la quale le sinistre si batterono alla Costituente. L’attenuazione della formula non cambia il significato originario del riferimento al lavoro, che era riferimento alla classe, intesa come essenziale fattore di contraddizione politica e di diseguaglianza di potere nella società.

L’articolo 3 lo ribadisce: è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli che impediscono la piena partecipazione dei lavoratori alla vita economica, politica, sociale del paese. Scorrendo il testo costituzionale, dal titolo III dedicato ai rapporti economico-sociali si ricava che la rappresentanza del lavoro è affidata al sindacato, anzi ai sindacati rappresentati unitariamente in proporzione ai loro iscritti, come si legge nell’articolo 39.

Non è – quella della rappresentanza unitaria proporzionale agli iscritti – una forma vincolante, posto che il primo comma dell’articolo 39 garantisce la libertà di organizzazione sindacale, e vieta qualunque restrizione alla libertà sindacale: infatti la “costituzione sindacale materiale” in quaranta e più anni si è irreversibilmente discostata dal modello dell’articolo 39. Ma certo quel modello indica il favore della Costituzione per una rappresentanza del lavoro funzionalmente unitaria e nello stesso tempo rispettosa del pluralismo associativo. Non si tratta di una indicazione di poco conto.

Ma quale lavoro? In questo scorcio di fine secolo la domanda non suona oziosa o peggio sospetta come poteva suonare ai costituenti. Nelle società postindustriali il lavoro si separa dalla classe, e la mappa delle contraddizioni politiche e delle diseguaglianze di potere si va facendo sempre più complessa. Insieme al modello fordista della produzione tramonta, scrive André Gorz, la società salariale. E poiché alla società salariale guardava storicamente il sindacato, che anzi ne costituiva una delle istituzioni essenziali, la questione è cruciale.

In tutti i paesi industriali, la rappresentanza del lavoro è attraversata da tre questioni, dalla cui soluzione dipende il futuro del sindacato. Quale lavoro rappresentare? Rispetto a quali contraddizioni e disuguaglianze rappresentare gli interessi del lavoro? In base a quale modello di organizzazione e a quali princìpi di democrazia sindacale costruire il rapporto con i lavoratori?

Il lavoro finora rappresentato
Storicamente e ancor oggi è il lavoro salariato, ossia il lavoro ascritto giuridicamente al contratto di lavoro subordinato. E il contratto di lavoro subordinato porta a sua volta impressa l’impronta socialtipica del salariato stabile e a tempo pieno: vi è quindi una autoreferenzialità nei criteri di identificazione del lavoro socialtipico. Eppure il lavoro non è solo quello che il contratto di lavoro subordinato tipico cattura.

Cresce in quantità e in importanza strategica il lavoro che assume forme economiche e giuridiche autonome o atipiche, e non si tratta soltanto del lavoro nero. Ovviamente, dalla rivoluzione industriale a oggi, il contratto di lavoro tipico è stato sempre un modello centrale, ma non certo onnicomprensivo. Del resto, le lotte sociali di questo secolo sono state in buona parte lotte di estensione delle tutele conquistate nelle aree forti alle aree di lavoro debole. Ma oggi la questione non è quella di annettere le province del lavoro marginale all’area fortificata del lavoro protetto.

La questione è governare una trasformazione del lavoro che rende inutili ed obsolete le fortificazioni e i fossi, e richiede forme mobili e ubique di controllo sociale, una trasformazione che, osserva lucidamente Bruno Trentin, investe il rapporto tra lavoro e identità, tra bisogni e libertà, e mette in gioco la sopravvivenza stessa dei sindacati.

Il senso — anche costituzionale — della rappresentanza del lavoro dipende quindi da questa trasformazione. Un sindacato arroccato nel fortilizio del lavoro forte, avverte non a torto Gino Giugni, rischia di diventare la “corporazione del lavoro dipendente” e non la rappresentanza degli interessi del lavoro, o almeno della maggior parte di essi. Storici steccati, come quello tra lavoro subordinato e lavoro autonomo, e ataviche diffidenze, come quella per tutto ciò che è occupazione flessibile, precaria, riabile, non aiutano a progettare forme di rappresentanza del lavoro senza aggettivi, del lavoro sans phrase, come direbbe Piergiovanni Alleva.

L’altra questione è la diseguaglianza. È merito di Massimo Paci e del Cespe di aver rilanciato il problema della ricerca sociologica sulla disuguaglianza. Negli ultimi dieci anni la disuguaglianza è cresciuta nella società italiana, sono cresciute la ricchezza di chi sta ai piani alti della scala sociale e il numero dei cittadini che sono in povertà.

Ma più che dalla differenza di classe in sé, la disuguaglianza sembra generata dai meccanismi di chiusura sociale, che in Italia sono molteplici e di diversa natura (dalla condizione familiare alle forme d’autorizzazione che dominano certe professioni, al contesto territoriale in cui si vive, alle mediazioni politico-mafiose che presidiano certi accessi all’occupazione). I meccanismi di chiusura sociale agiscono sulle opportunità, prima ancora che sui bisogni fondamentali degli individui.

All’azione di meccanismi di chiusura sociale si può in buona parte ascrivere il carattere segmentato e selettivo della disoccupazione italiana. I disoccupati sono le donne e i giovani, con concentrazione eccezionale nel Mezzogiorno.
E sono coloro che hanno perso il posto di lavoro a quarant’anni e più. Certo, la disoccupazione è alimentata da squilibri strutturali, è conseguenza della jobless growth che affligge l’economia dei paesi ricchi. Ma pesano molto le strategie di chiusura sociale, dalle quali neppure l’azione sindacale si può dire estranea.

Il potere contrattuale del sindacato tende a rafforzare le barriere protettive degli occupati, e la sua forza di pressione sul piano legislativo e amministrativo canalizza risorse pubbliche in modo asimmetrico, verso i gruppi (i settori, le imprese) che hanno maggior audience nell’arena politica.
Sembra che manchi il coraggio di innovare. Prendiamo il lavoro interinale e i giovani. Perché il sindacato non salta il fosso, e si fa esso stesso (in forme organizzative opportune) gestore di lavoro temporaneo, perché non accetta la sfida, dimostrando ai giovani che una libera associazione di lavoratori può forzare i chiavistelli della chiusura sociale, la mediazione burocratica e talvolta mafiosa dei vari collocamenti, la prepotenza tecnocratica delle imprese?

Vi sono dei rischi, è chiaro. Ma come pensare che far quadrato dentro la cittadella del lavoro protetto basti a esorcizzare l’avvento di forme variabili e precarie di lavoro? Arroccandosi si può forse impedire che il lavoro stabile esca, ma si impedisce pure che entri il lavoro senza aggettivi, che anche se instabile e atipico è pur sempre, per i giovani soprattutto, opportunità, contatto con il mondo della produzione, conquista di senso e di identità.

Rappresentare il lavoro è una responsabilità che include anche la rappresentanza di chi non ha lavoro
e di chi lavora sotto il segno della temporaneità e della flessibilità, che a volte è compromesso imposto dalla necessità, e a volte scelta e libertà, come ci avverte da tempo Aris Accornero.

Come rappresentare il lavoro? In quale forma organizzata e in base a quali princìpi di democrazia sindacale? L’articolo 39 della Costituzione è ormai un guscio vuoto, che ha il demerito di impedire per la sua sola presenza innovazioni legislative. Ma l’articolo 39 prefigura pur sempre un modello di composizione tra pluralismo associativo e unitarietà della funzione di rappresentanza, innanzitutto contrattuale. Unità e pluralismo, in base a misure certe di rappresentatività e di mandato. Qui sta il passaggio decisivo della questione attuale della rappresentanza e della rappresentatività.

Da un anno a questa parte le elezioni delle Rappresentanze sindacali unitarie (Rsu) procedono con innegabile successo: il sindacalismo confederale si conferma egemone nel segreto dell’urna,
e quel che più conta, dopo lunghi anni di stasi, i lavoratori partecipano largamente al voto, a dimostrazione che vi è una profonda esigenza di espressione individuale sul terreno sindacale, al di là delle appartenenze associative e della stessa adesione al sindacato.

Al contrario, in Parlamento la riforma legislativa che potrebbe rendere stabile il modello della rappresentanza unitaria elettiva rischia di insabbiarsi sulle secche della contrapposizione tra chi vuole “legiferare” la riserva del terzo dei seggi ai sindacati firmatari del contratto collettivo — prevista dall’accordo del 23 luglio, e riprodotto negli accordi di categoria — e chi confida nella legge per prendersi la rivincita sul vulnus del 23 luglio. Una contrapposizione, a conti fatti, di retroguardia, così come di retroguardia è la logica che ispira entrambi i referendum sull’articolo 19 dello Statuto dei lavoratori.

Per i sindacati confederali il nodo politico – che condiziona qualsiasi prospettiva di riforma dei modelli di rappresentanza e del relativo quadro normativo, legislativo e contrattuale – è quello dell’unità sindacale. Eleggere con voto generale rappresentanze unitarie nelle fabbriche, e conferire ad esse in tutto o in parte competenze contrattuali, mentre fuori delle fabbriche, e ai livelli contrattuali superiori, non vi è tra i sindacati né unità politica né regole comuni e condivise sul conferimento della rappresentanza contrattuale, significa coltivare una contraddizione esplosiva.

Qualcuno potrà considerarla una contraddizione salutare, levatrice della storia. Ma se la tendenza “storica” non è quella della costruzione dell’unità sindacale, intesa sia come unità politica sia come accettazione di regole condivise sul conferimento del mandato, la contraddizione rischia di essere solo esplosiva, e per nulla levatrice del futuro. E val la pena di aggiungere che l’unità sindacale non si può costruire né solo dal basso, sostituendo il ricorso permanente alla democrazia diretta alla costruzione politica dell’unità di azione, né solo dall’alto, come fusione di apparati e di organismi dirigenti. Essa richiede in primo luogo una revisione profonda delle istituzioni che regolano il rapporto tra rappresentanti e rappresentati.

L’impresa postfordista reclama un sindacato diverso, innanzitutto nel rapporto tra rappresentanza sindacale e partecipazione.
Il superamento del modello organizzativo gerarchico, della standardizzazione delle regole di lavoro, della generalizzazione delle figure professionali richiede non solo contratti, ossia regole comuni, ma anche decisioni comuni, confronti su scelte e su obiettivi, regole differenziate e flessibili e controlli sui risultati.

A tutto questo il modello della Rappresentanza sindacale unitaria risponde con l’intuizione giusta del metodo dell’elezione generale, che è certo e trasparente, e chiama tutti a esprimersi con lo stesso peso, e della rappresentanza unitaria di iscritti e non iscritti, che tuttavia non sfocia nel doppio canale, perché l’organismo eletto si attrezza come agente contrattuale riconosciuto, in un sistema di contrattazione strutturalmente assestato su due livelli.

Le intuizioni però non bastano, se le tendenze reali non ne favoriscono la concretizzazione. L’articolo 39 della Costituzione offre a questo riguardo l’esempio di una buona intuizione, spesa malamente. La rappresentanza del lavoro — era l’intuizione dell’articolo 39 Cost. — deve conciliare unità e pluralismo, secondo regole decisionali certe; e in base a una rappresentatività misurata. Ma su questa intuizione venne cucito un abito che non si addiceva al sistema sindacale del tempo, che lo doveva indossare (e al quadro politico che avrebbe fatto da sfondo alla “vestizione”).

Oggi sta al movimento sindacale italiano non cadere nell’errore opposto. Allora si cucì un abito che non si addiceva al “cliente”. Oggi diversi schieramenti di sarti vorrebbero tagliare un abito (legislativo) o troppo largo o troppo stretto perché pensato sulle misure di clienti diversi. E non fa molta differenza che alcuni usino le forbici del referendum e altri l’ago e il filo della riforma legislativa.

Il punto cruciale resta lo stesso: il vasto movimento che sta portando all’elezione di organismi sindacali unitari nei luoghi di lavoro, saldamente ancorati al sistema contrattuale e quindi alle organizzazioni sindacali, esprime un’intuizione preziosa, ma è un movimento che non può arrestarsi alla dimensione dell’azienda. Il futuro delle Rsu va di pari passo con quello dell’unità sindacale.