E’ un giorno d’estate, un gruppo di persone si aggira in silenzio tra i locali della ThyssenKrupp di Torino: un luogo bruciato, l’odore del ferro, gli spazi abbandonati e inospitali. Così Pippo Delbono ricorda la sua visita agli stabilimenti della fabbrica tedesca dove un rogo uccise sette operai nella notte tra il 5 e il 6 dicembre 2007, visita preliminare per partorire uno spettacolo che lo Stabile di Torino, diretto da Mario Martone, ha commissionato al regista genovese per inaugurare la stagione di quest’anno negli spazi delle ex Fonderie Limone di Moncalieri, ora adibiti a sala teatrale: un luogo fortemente simbolico dove la fabbrica, che ha lasciato spazio all’arte, accoglie le spoglie di un’altra fabbrica in una sorta di catena desolata. Ed è proprio con la rappresentazione della fabbrica che inizia lo spettacolo, che inizia “La menzogna”: in silenzio, al buio, illuminato soltanto da un fascio tagliente di luce, un uomo entra in scena, si dirige verso il suo armadietto, indossa la sua tuta da operaio. In un percorso identico altri personaggi entrano, si spogliano della loro identità e indossano gli abiti da lavoro. Uno di loro stringe un mazzo di fiori, attraversa il palco e si stende come in una bara. Un video promozionale della Thyssen propone fabbriche e uffici moderni e all’avanguardia, uomini felici, padri che giocano nel tempo libero insieme a figli sorridenti, donne soddisfatte, tutti dipendenti che sostengono lo slogan finale: develop the future. Impossibile non pensare a chi il futuro l’ha perduto in locali molto meno moderni e all’avanguardia e che avrebbero dovuto essere già chiusi.

Il controcanto viene da un altro video in cui padre Alex Zanotelli denuncia il sistema di tipo camorristico che domina l’economia e la finanza, sistema grazie al quale poche famiglie detengono il monopolio della ricchezza mondiale. Come fossero capitoli introduttivi, questi primi momenti dello spettacolo lasciano poi spazio all’immaginazione e all’arte visionaria e libera di Delbono che porta all’estremo la sua ricerca su un teatro accessibile grazie alle emozioni e all’immaginazione dello spettatore, lasciato libero di leggere e vagare con le proprie associazioni di idee nelle figure e nei momenti dello spettacolo. La menzogna è però uno spettacolo complesso, difficile da interpretare, e il pubblico a volte fatica a seguire le trovate, pure poetiche e efficaci, dell’autore. Preti e uomini d’affari nascondono dietro ai loro occhiali scuri il volto del potere, le loro risate si trasformano in urla e in latrati, in versi animaleschi che gelano il sangue, i loro sguardi viscidi e i loro gesti si concentrano sulle donne seminude che ballano o si muovono come fossero in trance.

I costumi e le musiche richiamano le atmosfere della Germania anni ’30, a ricordare il passato bellico dell’industria tedesca protagonista dello sforzo militare nazista e dei primi passi del capitalismo finanziario dopo la guerra, come a dire che le sue colpe derivano dalla sua stessa origine. I corpi squarciati da movimenti frenetici e bruschi, o lenti e appesantiti come l’agonia e l’incendio, sono abbandonati negli angoli, spogliati, morti. Delbono si aggira per il palco e per la sala scattando fotografie a caso e al pubblico con una piccola digitale: siamo parte del meccanismo mediatico che macina e tritura l’identità e l’umanità, tutti testimoni inerti, seduti a contemplare le immagini di una tragedia consumata lontano da noi e dunque incomprensibile. È questa la menzogna, per cui lo stesso Pippo nel finale chiede scusa, la menzogna che ci portiamo addosso, profonda e nascosta dalle maschere di un dolore impossibile da provare perché di fronte alla morte si può provare solamente pietà: “Quando a mio padre si fermò il cuore non ho provato dolore”, canta De Andrè, e il privato diventa crudele e universale perché, spiega Delbono, tutti i fatti a cui assistiamo, anche quelli più atroci come l’incendio di una fabbrica e i corpi carbonizzati, sono solo immagini che vengono presto sostituite da altre e che suscitano in noi pietà, paura, indignazione, ma non dolore, che è qualcosa di più profondo, come la menzogna.

(La Menzogna di Pippo Delbono. Fino al 22 marzo al Teatro Argentina di Roma, poi a Napoli e Lisbona)