La sede della mitica Compagnia Unica Tra I Lavoratori Merci Varie (Culmv) del porto di Genova è rimasta identica a com’era trenta e più anni fa: un edificio anni 50, un po’ anonimo, al centro del piazzale di San Benigno giusto di fronte alla vecchia Lanterna, che è uno degli ingressi più frequentati del porto. Al piano terra, nei momenti di calma, giocano a carte seduti al bar alcuni vecchi “camalli” in pensione, serviti da donne con i volti segnati dalla vita. “Alcune di loro – spiega Antonio Benvenuti, il console che ha raccolto la difficile eredità di Paride Batini – sono figlie o vedove di camalli morti sul lavoro, che abbiamo organizzato in cooperativa per assicurare il servizio bar e il servizio mensa, aperto anche agli esterni. Prima i bar erano disseminati nel porto e ci mettevamo a servire i lavoratori non idonei. Adesso è rimasta solo la struttura centrale”.

L’atmosfera è quella tipica del dopolavoro e della “Città Vecchia” di Fabrizio De André: le voci che rimbombano nei muri alti e scrostati, la parlata e le battute in genovese, la sensazione che da qui sia passata la storia e che ora si sopravviva con i ricordi e le vecchie leggende. Ma non è così. La sala chiamate è tuttora attiva, anche se gli sms che chiamano a raccolta i camalli per il turno di lavoro (ogni giorno le chiamate sono sette) hanno soppiantato i megafoni. Uno dei due enormi saloni dell’edificio, che è in concessione alla Culmv ma è proprietà del demanio, capace di accogliere fino a 2 mila persone, serve per organizzare feste, serate da ballo, ma anche conferenze, mostre, incontri sindacali, religiosi e politici. Dal 20 al 22 aprile si tiene qui una mostra sulla resistenza. “La sala – spiega ancora Benvenuti – è ceduta gratuitamente a chiunque ce la richieda. A meno che i suoi obiettivi non contrastino con i principi della Compagnia”. A titolo di esempio Benvenuti cita il Comitato per il No al porto d’Africa, che si batte contro l’espansione del porto: “Se vogliono – puntualizza – vengono a discutere con noi. Ma la sala non gliela diamo”.

Vecchio e nuovo
Ne è passato di tempo da quando la Compagnia era quasi ogni giorno sulle prime pagine dei giornali. Era diventata un po’ il simbolo del conflitto tra il vecchio e il nuovo, tra una classe operaia arroccata in difesa di antichi privilegi e la modernità dettata dalle nuove esigenze della concorrenza mondiale. Un conflitto che aveva scelto il porto di Genova come sede della battaglia decisiva.
Rivista alla luce di quel che è successo dopo e che accade oggi nel porto, e non solo, la storia di questo conflitto assume un valore paradigmatico, per ciò che hanno significato i progetti di riorganizzazione del lavoro portuale e il mutato rapporto tra la città e uno dei suoi gangli vitali, per ciò che hanno prodotto la lotta di classe e le battaglie sindacali, per gli effetti delle liberalizzazioni e della globalizzazione, è poi ancora per quello che è stato l’impatto devastante della crisi economica.

Costituita nel 1946 in seguito alla necessità di riorganizzare il lavoro delle diverse compagnie operanti nel porto di Genova, da quella dei carbuné o carbunin (vedi riquadro) a quella degli addetti alle merci varie, l’“Unica” – come viene chiamata – trae origine dalla Compagnia detta dei Caravana (vedi), fondata nel 1340 per raggruppare la manovalanza adibita allo scarico delle merci dai velieri. L’attività della Compagnia Unica si basava sul principio della “riserva esclusiva” del lavoro portuale, stabilita dall’articolo 110 del Codice della Navigazione. Allora non c’erano i terminalisti privati. L’attività del porto era regolata da un’autorità pubblica, il Cap (Consorzio autonomo porto di Genova) e da altri enti che avevano personale proprio, dai magazzinieri ai manovratori ferroviari, dai gruisti agli amministrativi, a cui si affiancavano i lavoratori della Compagnia. Gli armatori, rappresentati da figure come gli agenti marittimi e gli spedizionieri, erano clienti di questa struttura pubblica.

Le cose sono cominciate a cambiare quando i primi contenitori hanno fatto il loro ingresso nel porto di Genova. Nel 1969 il molo Ronco fu il primo in Europa a introdurre quella vera e propria rivoluzione dell’attività portuale che era rappresentata dai container. Ma dovevano ancora passare parecchi anni prima che l’intera struttura portuale si adeguasse alle nuove esigenze. Oggi a regolamentare in termini generali l’attività del porto è ancora una struttura pubblica, l’Autorità portuale, ma a dettare legge sono le imprese concessionarie, società private costituite da ex agenti marittimi, gruppi armatoriali, agenzie di varia natura che si spartiscono quote di traffico e pezzi di banchina. Il porto è stato spezzettato in 13-14 terminal, che sono affidati a queste imprese in concessione, all’inizio senza gara pubblica ma con l’obbligo di garantire un certo volume di traffico. In altre parole la concessione può essere ritirata se, poniamo in un anno, neppure una nave attracca al molo affidato all’impresa. “L’ingresso dei privati – commenta Benvenuti – ha scardinato l’assetto pubblico e l’intera organizzazione del lavoro portuale”. Di fatto la riserva esclusiva della Compagnia ha iniziato a vacillare, dato che le imprese terminaliste – la Sech e la Psa (ora appartenente a un gruppo di Singapore, che ha rilevato importanti quote azionarie della Vte, ex gruppo Fiat) sono le principali a Genova nel settore contenitori – hanno potuto assumere i loro dipendenti diretti nella convinzione che l’attività dei container fosse compresa in un ciclo industriale e quindi potesse fare a meno del lavoro a chiamata.

La guerra dei califfi
Come si è arrivati a questa situazione? Il momento di svolta si può far risalire al 1987, quando il presidente del Cap Roberto D’Alessandro, manager di scuola craxiana, si mette in testa di fare entrare massicciamente i privati nel capitale azionario prevalentemente pubblico che ha gestito finora le risorse del porto e di abolire la riserva esclusiva del lavoro portuale attraverso una deroga alla legge (il tutto riportato nei famosi “Libri blu”). Seguono una serie di ordinanze che aggirano la riserva limitandola al solo lavoro di bordo e di sottobordo, escludendo quindi tutto ciò che avviene nel piazzale e che, da quel momento, risponde a criteri tariffari diversi.
Inizia un periodo di intensa conflittualità, con scioperi, picchetti, blocco dell’attività del porto. In alcuni casi si arriva quasi allo scontro fisico, quando ad esempio i lavoratori e i delegati della Compagnia Unica impediscono lo sbarco di un traghetto della Grendi & Tarros che vuole utilizzare per lo scarico delle merci i propri marinai. Il governo intanto va avanti per la sua strada e, sempre nel 1987, decide di commissariare la Compagnia. Nel gennaio del 1989 il ministro dei Trasporti Onelio Prandini, democristiano, emana una serie di decreti che, di fatto, autorizzano l’ingresso dei privati nel porto, aboliscono la riserva unica e le prerogative della Compagnia e danno il via a una ristrutturazione del lavoro in tutti i porti italiani.

L’offensiva contro i supposti privilegi della Compagnia Unica trova sostegno in una martellante campagna di stampa. Uno dei più agguerriti fautori della riforma è Giorgio Bocca, che attacca più volte sui giornali i “califfi” della Compagnia Unica. La tensione si trasmette all’intera città, rischiando di rompere una tradizione di forte identificazione tra Genova e i lavoratori del porto nonostante i tentativi di mediazione del vescovo e dei politici locali. Il timore, naturalmente, è che il capoluogo ligure perda il suo primato nelle rotte dell’alto Mediterraneo a favore di altri porti come Marsiglia, Livorno e La Spezia. “Ciò che spaventava la Compagnia – ricorda Benvenuti, che come vice di Paride Batini ha vissuto da protagonista quella stagione di lotta – non era l’ingresso delle imprese private nel porto, che già da prima lavoravano nei servizi. Era il timore che i privati si portassero dietro il loro personale, deregolamentando il lavoro e ponendo fine alla nostra autonomia organizzativa. Fino a quel momento, infatti, il nostro compito era preparare squadre e mezzi quando arrivava un nave. A quel punto l’alternativa era di trasformarci in un’impresa concorrente con altre sul costo del lavoro o diventare una sorta di agenzia interinale. Fu questo il motivo della rottura”.

Meglio soli che con i vecchi amici

Il culmine della tensione si raggiunge nell’89, quando una manifestazione di spedizionieri, cioè i rappresentanti delle società più interessate alla riforma, attraversa le vie della città riportando alla memoria la marcia dei 40 mila a Torino. La Compagnia risponde con due grandi manifestazioni che vedono scendere in piazza a fianco dei portuali gran parte del mondo del lavoro genovese e una massiccia rappresentanza degli studenti. In questa fase le azioni di lotta, compresa l’occupazione del porto di Voltri, sono decise da un’assemblea permanente dei lavoratori, che revoca la delega al sindacato, la assegna al consiglio dei delegati sindacali e decide di collettivizzare il salario, suddividendolo in parti uguali fra tutti i soci.

Vale la pena ricordare che la vicenda di Genova assunse una rilevanza nazionale anche per quanto riguarda l’aspetto puramente sindacale. L’allora segretario generale della Cgil, Antonio Pizzinato, seguito poi dalle categorie interessate, si schierò a favore di un accordo nazionale per regolamentare il lavoro nei porti, valido per tutti ma mirato in particolare alla situazione che si era creata a Genova. L’accordo fu però sconfessato dall’assemblea dei soci della Compagnia, che proseguì per la sua strada determinando un periodo di forte tensione con la Cgil. In breve la Compagnia unica scelse di incrinare il legame storico con il sindacato che era sempre stato il suo punto di riferimento, cioè la Cgil, dopo le disillusioni che si erano già consumate sul terreno politico e che avrebbero avuto nel tempo ulteriori conferme. Infatti non ci fu solo una dura polemica con il Pci, partito nel quale si era fino allora identificata gran parte dei camalli; colmo del paradosso, nel 1995 sarà il ministro di Alleanza Nazionale Publio Fiori a consegnare alla Compagnia, con grande pubblicità, l’atto di concessione del terminal Multipurpose. Ma procediamo con ordine.

Nemesi storica
La svolta decisiva si ha con l’accordo tariffario che la Compagnia firma in prefettura con l’armatore Grimaldi, che riconsegna ai camalli l’esclusiva del lavoro nel porto per i traghetti di quella compagnia, aprendo la strada ad altre intese e a un accordo-tregua col Cap di Genova firmato la notte di Capodanno del 1990. Nel 1994, dopo una lunga serie di decreti che ne anticipavano in parte i contenuti, viene emanata la legge n. 84 di riordino in materia portuale, che sarà poi completata con le integrazioni della legge 186/2000. Mentre altre Compagnie fanno scelte diverse – ad esempio quella di Livorno si trasformerà in una holding, cioè in un’impresa privata a tutti gli effetti –, la Compagnia Unica di Genova si impegna a trasformarsi in un’impresa di servizi (articolo 21, comma b) sotto forma di cooperativa srl, il che avverrà a partire dal marzo 1995.

Nel 1994 i dipendenti della Compagnia Unica sono 564 (erano arrivati fino a 6.400 nell’epoca d’oro)
, di cui solo un’ottantina fanno ormai parte del vecchio gruppo. Il ricambio generazionale avviene con l’ingresso di figli di soci in pensione o in attività. 250 persone vengono assorbite dalla Compagnia Ramo Industriale chiusa nel 1993, un quarantina sono ex Carenanti (vedi) e altri 200 entrano a far parte della Compagnia in seguito al fallimento di un terminalista, che per nemesi storica è proprio quel Bruno Musso della Grendi & Tarros che aveva dichiarato guerra alla Compagnia nel 1989. In cambio la Compagnia ottiene la gestione del lavoro nell’area di competenza della società fallita, poi rilevata da una società olandese. “Meglio stare insieme ad altri pezzi di classe operaia che rimanere divisi – chiosa Benvenuti –. E, d’altronde, pur volendo i soci della Compagnia Unica assicurare la trasmissione del lavoro ai propri figli, l’accorpamento di 490 lavoratori esterni in Compagnia non è stata certamente una scelta corporativa”.

La continuità con il passato viene comunque salvaguardata. Dal 1996-97 inizia un periodo di boom dei traffici marittimi, che diventa ancora più corposo dal 2002 fino al 2007. Le chiamate aumentano in parallelo con l’incremento del traffico e il lavoro della Compagnia si articola man mano in nuove mansioni, legate all’accresciuta complessità dell’attività portuale. La “rinfusa” e le “merci varie” subiscono un drastico ridimensionamento, mentre è richiesta sempre di più l’opera di carrellisti, gruisti, manovratori e movimentatori, che naturalmente devono essere formati in maniera adeguata. Nel 1995 il console Paride Batini tenta una nuova avventura: fare entrare la Compagnia nel business del terminal container. Per 6-7 anni la Compagnia ottiene in concessione la gestione del terminal Multipurpose, in società con Fiat Voltri, il gruppo Spinelli e altri privati. La consegna ufficiale dell’atto di concessione si trasforma in un’operazione politica che sembra dare un valore simbolico alla svolta compiuta dalla Compagnia Unica. “In realtà noi abbiamo sempre seguito lo schema della legge – spiega Benvenuti –. E non c’era alcun impedimento a trasformarsi in terminalisti, seppure temporaneamente. I decreti applicativi del 2000 e del 2002 hanno poi specificato che se sei fornitore di lavoro temporaneo non puoi gestire terminal né alcun tipo di attività di impresa d’appalto all’interno del porto. Noi, tuttavia, abbiamo sempre pensato di utilizzare il terminal Multipurpose come strumento contrattuale da scambiare con un numero di giornate di lavoro non più affidato al caso ma garantito dalla continuità dell’attività portuale svolta dai terminal privati. Noi non siamo veri imprenditori, non abbiamo capitali e non abbiamo mai pensato di accollarci il rischio di impresa”.

Nel 2005 il terminal Multipurpose, che muove parecchi appetiti, viene così restituito all’Autorità Portuale, non senza strascichi di carattere legale che durano ancora oggi.

Cambiare tutto per non cambiare nulla?

Nel frattempo è intervenuta la crisi economica, che esploderà in tutta la sua virulenza nella seconda metà del 2008. Mentre negli anni 80 il surplus di manodopera era stato affrontato con una serie di prepensionamenti e uscite agevolate (27 anni di contributi e uno “scivolo” di 8 anni), oggi si ricorre all’istituto del “mancato avviamento”, previsto dall’articolo 17 della legge 84/94. In sostanza, per i giorni in cui si sta fermi, lo Stato – anche se per la verità l’articolo 17 prevedeva che l’indennità fosse a carico dei privati, come avviene ad esempio nel porto di Anversa – assicura agli operativi un’indennità più o meno equivalente a una giornata di cassa integrazione, circa 30 euro, a consuntivo mensile. “Così oggi, se un socio lavora 12 turni – spiega ancora Benvenuti –, a fine mese prende il corrispettivo per questi turni, più 14 giorni di mancato avviamento. Del resto il nostro lavoro non è programmabile, se non altro per ragioni ambientali, mentre noi dobbiamo essere a disposizione 24 ore su 24, soprattutto nei week end, per coprire il lavoro richiesto con le chiamate. Per questo c’è bisogno di flessibilità e della disponibilità di tutti”.

L’articolo 17 della legge 84 prevedeva anche una gara pubblica per aggiudicarsi il lavoro portuale temporaneo e affidava ai concorrenti il compito di fissare l’organico. La gara si è svolta regolarmente nel 2008. L’unico partecipante è stata la Compagnia Unica, alla quale oggi figurano in forze 990 operativi, più 62 amministrativi, cioè l’organico che è stato ritenuto necessario per svolgere l’attività. Dal 1° novembre 2009 la Culmv agisce così nel pieno rispetto della legge, prestando in esclusiva per i picchi di lavoro, dopo i dipendenti delle imprese terminaliste, la propria opera nei 13 terminal del porto di Genova, come singoli lavoratori o con squadre organizzate guidate da capisquadra detti “caporali”, coprendo mansioni di stivatore, commesso, fiduciario, pesatore, spuntatore, portabagagli, gruista, carrellista, conduttore di mezzi meccanici, di carri ponte e di motrici per imbarcare rimorchi nei traghetti. Tutte mansioni che vengono svolte su chiamata in quattro turni giornalieri, compreso quello notturno e festivo e in tutte le condizioni di tempo atmosferico. La chiamata viene effettuata 2 ore e mezzo prima dell’inizio del turno ed è comunicata all’interessato con un sms 1 ora e mezzo prima. La gestione è assicurata da un consiglio di amministrazione composto dal console, un viceconsole e 4 consiglieri, eletto dai soci ogni tre anni su scheda bianca. Il contratto di lavoro, integrato da un regolamento interno, è quello nazionale dei porti introdotto nel 2001, un evento che ha contribuito a riportare la pace con la Cgil.

In sostanza tutte le prerogative della Compagnia, che avevano fatto gridare allo scandalo negli anni 80, sono rimaste intatte. Il lavoro su chiamata è sempre in esclusiva – i soci della Compagnia fanno buona guardia nel porto affinché non entrino imprese di manodopera esterne non autorizzate –, il salario, per quanto fluttuante, continua a essere garantito dalle giornate e dall’indennità di “mancato avviamento” – e il posto di lavoro, in alcuni casi, è ancora trasmesso di padre in figlio per conservare il senso di identità e di appartenenza dei giovani soci. E così la Compagnia continua a essere davvero “unica”.