Quando nel gennaio del 1945 fu fondato il Sindacato nazionale scrittori, realizzando un'idea di Giuseppe Di Vittorio e Corrado Alvaro, che fu il primo segretario, venne segnato anche un primo tracciato su cui poi si sarebbe incamminato questo singolare incontro tra sindacato e lavoro culturale. Alle spalle c'era un paese distrutto, non ancora liberato del tutto dal nazifascismo, mentre nell'ampia parte già liberata – per usare proprio le parole di Alvaro raccolte nel volume “L'Italia rinunzia?”, edito da Donzelli – c'era da rimanere stupiti nel constatare come “l’ambiente si sia nuovamente avvelenato, e l’odore di cadavere che ammorbò l’Italia per tanti anni, salga da tutta la vecchia classe dirigente morta e non rimossa dal Comitato di Liberazione, e che marcisce sulle sue poltrone, nei suoi palazzi, marcisce in piedi, mentre parla, briga, discute, scrive”.

Il sindacato ebbe subito chiara l'idea di non doversi limitare a essere una semplice rappresentanza nominale degli scrittori, ma di poter essere – a proprio modo, e con il proprio operato – una sorta di pungolo tra le macerie, e tra i nuovi veleni che avrebbero potuto stritolare la fragile democrazia. Detto in altri termini: un'area all'interno del mondo confederale in faticosa costruzione. Oggi che viene riorganizzata all'interno della Slc la Sezione nazionale scrittori, molte delle idee maturate nei decenni scorsi tornano al pettine. Provo ad elencarne alcune.

Primo. Un sindacato che raccoglie gli scrittori non è un'Unione degli scrittori. Nel dibattito iniziale di Di Vittorio e Alvaro (e Libero Bigiaretti, Francesco Jovine, e tutti coloro i quali si unirono in seguito: Elio Vittorini, Vasco Pratolini, Guido Piovene, Giuseppe Ungaretti, Alberto Moravia, Carlo Cassola...) era forte l'idea di porre una netta, radicale linea di demarcazione tra democrazia e totalitarismo, e quindi tra un sindacato democratico, e liberamente partecipato, e quelle tipiche organizzazioni dei regimi totalitari che intruppano la cultura e la sua rappresentanza, non solo organizzando l'esistenza degli autori, ma anche gettando le basi delle linee estetiche, e quindi etico-politiche, da seguire, pena l'ostracismo e l'esclusione dalla stessa unione. Un sindacato di scrittori non può che essere, oggi come ieri, il più aperto possibile intorno alle questioni “estetiche”, il meno verticistico possibile, il più pluralista possibile quanto all'organizzazione interna.

Secondo. Allo stesso tempo, un sindacato degli scrittori non è una semplice associazione di uomini e donne che scrivono. Pone, al contrario, questo incontro all'interno di una riflessione il più approfondita possibile sull'essere e fare sindacato, sul lavoro culturale in relazione agli altri lavori. Si dice spesso che il lavoro di scrittore sia troppo individualista, solitario, frammentato, irregolare per poter essere rappresentato da un sindacato. Ma tale osservazione, oggi come ieri, è semplicemente la spia di qualcos'altro, di un modo di pensare radicato, più che di una chiara constatazione dello stato di cose. Innanzitutto perché non esistono lavoro non rappresentabili: anzi, è proprio la teoria astratta della non-rappresentabilità di intere aree dell'attività umana ad aver prodotto un vulnus. In secondo luogo perché, proprio in un'epoca post-novecentesca, in un'epoca del lavoro frammentato, solitario, irregolare per tantissimi uomini e donne, quella “condizione dello scrittore” (ammesso che possa essere definita in questi termini) è condizione diffusa.

Terzo. La letteratura, il fare e il produrla, non è un'operazione slegata dal mondo circostante. Richiede il coinvolgimento, visibile e invisibile, di migliaia di persone. Per questo, più che di “scrittura” è importante – oggi come ieri – parlare di lavoro culturale. Lavoro accanto ad altri lavori, non separato da essi. Ed è ancora più importante farlo in un'epoca in cui è stata predicata la “fine del lavoro”, in cui il delinearsi di un panorama post-industriale coincide paradossalmente con il trionfo, su più livelli, dell'“industria culturale”. C'è una relazione tra “fine del lavoro”, desertificazione industriale, crisi dei paradigmi politici e sindacali novecenteschi, e l'affermazione – sovente ripetuta come un mantra – secondo la quale “con la cultura si mangia”? Io credo di sì. Ed è proprio per questo che tale relazione va indagata da cima a fondo, ricostruendo il modo in cui oggi funziona la “post-industria culturale”, il modo in cui essa si dipana in ogni angolo del paese, non solo nelle grandi città.

Quarto. Nel lavoro culturale non ci sono solo gli scrittori. Ma anche i traduttori, i fotografi, gli attori, i registi, i musicisti, i fumettisti... E per estensione, i grafici, i tecnici, i tipografi, gli spedizionieri... È questo l'universo che va pensato nel suo insieme. Pertanto, è importante che il Sindacato nazionale scrittori rinasca come Sezione nazionale scrittori all'interno dell’Slc Cgil. Quel “sezione” sta ad indicare l'“accanto” ad altri lavori culturali. Oggi non c'è categoria che possa pensare unicamente a se stessa. Nessuno può essere autosufficiente. Il frammentato, l'irregolare, il solitario si tiene insieme setacciando e raccogliendo le differenze, amalgamando i vari strati, ritrovando nuove forme di incontro, contatto, condivisione. Nella sfida della rappresentanza – e della rappresentazione delle cose, da cui poi può nascere la rappresentanza – l'intuizione originaria delle Camere del lavoro fu proprio questa.