Seimilatrecento. In qualunque modo lo si scriva o lo si legga il numero delle persone che ArcelorMittal vorrebbe lasciare a casa è enorme. Un colpo al cuore dell’ex Ilva, della siderurgia italiana e, complessivamente, dell’intera industria del Paese. Perché senza quei lavoratori l’acciaieria più grande d’Europa si spegnerebbe: quello di Taranto su cui peserebbe il grosso dei licenziamenti è un impianto troppo grande per sopravvivere senza migliaia di addetti che ne garantiscano il funzionamento a pieno regime. “È un bagno di sangue – ci dice Giovanna Costantini, fino a qualche giorno fa un contratto a tempo indeterminato al customer care dello stabilimento pugliese –. Le persone che lavorano lì sono per bene, semplici lavoratori che vogliono soltanto portarsi il pane a casa. E poi ci sono tutti gli altri, quelli delle aziende che ruotano attorno all’Ilva – gli appalti, i trasportatori, i fornitori di vario tipo –, spesso vengono dimenticati e trascurati ma tutti, tutti, proprio tutti e, in particolare, i signori al governo dovrebbero ricordare che l’Ilva è un punto nevralgico del lavoro in questa regione. Resto convinta che, se si volesse, si potrebbe trovare una soluzione perché mandare a casa quasi 5.000 persone oggi è un massacro”. Quando Giovanna pronuncia queste parole lo fa senza rabbia e tantomeno con rassegnazione. È risoluta anche se pochi giorni fa quelli delle risorse umane e della direzione l’hanno chiamata in ufficio poco prima che scadesse il suo periodo di prova: lei è la prima licenziata di ArcelorMittal.

I miei sei mesi scadevano il 3 dicembre, invece mercoledì 27 novembre, alle 4 e 40 del pomeriggio, mi hanno convocata. Cinque minuti: il tempo che serviva per farmi firmare il foglio di recesso e comunicarmi che dovevo restituire i dispositivi aziendali come cellulare e computer. Non me l’aspettavo, così ho chiesto se fosse accaduto qualcosa. Mi hanno risposto di no, che non c’era nulla di personale, che si trattava solo di decisioni aziendali. Ma ero l’unica a essere mandata via e così ho insistito. E allora mi è stata detta questa frase che mi è rimasta dentro: non farcela pesare più di quanto non sia. Loro a me. Insomma, ecco: è evidente che non riescono nemmeno a capire cosa si prova quando ti viene detta una cosa del genere in cinque minuti. Quando ti dicono che ti stanno disattivando il badge e che il giorno dopo non ti devi più presentare al lavoro. Così”.

Giovanna Costantini è uno dei settanta profili qualificati che il gruppo franco-indiano aveva arruolato tra Taranto, Genova e Novi Ligure dopo aver vinto la gara per l’acquisizione dell’ex Ilva. Parla tre lingue: inglese e tedesco oltre all’italiano. E forse proprio per questo, quando aveva risposto all’annuncio su internet, l’agenzia interinale che era stata incaricata dalla ricerca l’aveva contattata subito e al secondo colloquio ArcelorMittal le aveva proposto di lasciare immediatamente l’azienda dove lavorava. “Era un’impresa fantastica, ma lì avevo un contratto a tempo determinato, l’ho lasciata proprio per avere maggiore stabilità. E pensare che, quando sei mesi fa firmai la proposta di assunzione, mi richiamarono da ArcelorMittal la sera stessa per convincermi a rinunciare persino a dare il preavviso”.

“Sto già cercando altro – continua determinata Giovanna –. Spero nel meglio, ma ho voluto raccontare la mia storia per denunciare il comportamento di questa azienda. Pensate che, a quanto ne so io, per assumerci aveva chiesto una deroga al contratto. Ora l’unica cosa che veramente mi auguro è che non licenzi nessun altro”. Determinazione, la stessa che l’ha spinta a lasciare Dusseldorf a 28 anni per tornare nella terra di origine dei suoi genitori, una coppia di pugliesi emigrati in Germania. “In momenti così ovviamente non sono sicura di aver fatto la scelta giusta... quando ci sono gli obblighi quotidiani, le responsabilità, le bollette e tante cose non vanno nel verso giusto pure se ti dai sempre da fare ti viene lo sconforto. Ma a me piace stare qua, mi piace questa terra e purtroppo, o forse grazie a Dio, continuo a crederci”.