Negli ultimi anni si è molto parlato della sharing economy. Sul fronte del lavoro, però, il dibattito ha registrato una certa confusione, alimentata da diversi luoghi comuni, di effetto, ma fuorvianti. Nel nostro Paese in particolare si tende a confondere la sharing economy, intesa come “economia della condivisione” (in cui le persone condividono propri beni sotto-utilizzati con altre persone in una specie di scambio “alla pari” – come quando si condivono i costi di un viaggio in macchina) con realtà del tutto diverse.

La tendenza è soprattutto quella di utilizzare questo termine per riferirsi a ciò che altrove viene ormai definito come gig-economy, cioè “economia dei lavoretti”. Un concetto totalmente diverso dalla sharing economy: l’unico elemento in comune è spesso l’utilizzo di piattaforme tecnologiche per mettere in contatto gli utenti. Tuttavia, nella gig-economy – quella dove operano realtà come Uber, TaskRabbit, Foodora o Deliveroo – non c’è alcuno scambio “alla pari”: queste società offrono dei servizi ai consumatori attraverso una rete di lavoratori che viene coordinata anche tramite sistemi informatici. Altre volte, invece, i clienti “postano” dei lavori (come la trascrizione di audio o il riconoscimento di emozioni in un testo scritto) che possono essere eseguiti interamente online da altre persone, connesse da ogni parte del mondo a piattaforme come l’Amazon Mechanical Turk o Clickworker.

Nonostante sembrerebbe naturale applicare le protezioni a tutela dei lavoratori anche a chi è occupato nella gig-economy, c’è molto dibattito – e confusione – su questo aspetto. A parte la mancanza di chiarezza, che nasce dalla novità del lavoro scambiato su piattaforma, è evidente lo sforzo di nascondere il lavoro dietro parole come “favori”, “corse” e “compiti” e di classificare i lavoratori come freelancer indipendenti. Rappresentare questo tipo di lavoro come una semplice “condivisione dei favori” trasmette l’immagine della gig-economy come una realtà parallela, nella quale compiti faticosi sono svolti in maniera amatoriale, quasi si trattasse di hobby, senza niente in comune con il lavoro.

La realtà, però, è diversa. Per la maggior parte dei lavoratori, i lavori ottenuti attraverso una o più piattaforme costituisce la fonte principale del proprio reddito. Secondo una recente indagine, condotta dall’Ilo su due delle più importanti piattaforme per lo scambio di micro-lavori, il 40% di chi ha risposto indicava nel lavoro trovato sulla piattaforma la fonte principale del proprio reddito, con un impegno medio di 30 ore settimanali.

Un’altra impressione comune è che queste persone siano immancabilmente dei lavoratori autonomi, indipendenti dalle piattaforme e dai clienti che le utilizzano. Per essere più precisi, molta della retorica della gig-economy ruota intorno all’idea che i lavoratori siano i “capi di se stessi”, una nuova generazione di microimprenditori liberi di lavorare quando e come vogliono e di far crescere il loro volume d’affari senza rispondere a nessuno. Ma la verità è un’altra: mentre esistono alcune piattaforme che servono come luoghi di incontro per acquirenti e prestatori di servizi, nel caso delle piattaforme che offrono “prestazioni di lavoro”, raramente il lavoratore è libero di operare in maniera indipendente. Le piattaforme svolgono un rilevante ruolo di coordinamento della prestazione dei lavoratori e dei loro rapporti con i clienti.

Le piattaforme fissano spesso il prezzo della prestazione e definiscono le caratteristiche del servizio, o permettono ai clienti di farlo unilateralmente. Esse possono definire i tempi o i dettagli del lavoro, compresa la possibilità di istruire i lavoratori a indossare un’uniforme, a utilizzare strumenti specifici, o a trattare i clienti in un modo particolare. Molte piattaforme sono dotate di sistemi di controllo della performance, che permettono ai clienti di esprimere un voto sui singoli lavoratori e alle piattaforme stesse di limitare la possibilità per i lavoratori di vedersi assegnare determinati compiti, fino alla loro totale esclusione dal sistema.

L’intensità della direzione e del coordinamento a cui i clienti e le piattaforme sottopongono i lavoratori raggiunge in molti casi il livello di controllo normalmente riservato agli ordinari datori di lavoro, i quali però devono rispettare forme di protezione, minimi retributivi, limiti all’orario di lavoro, alti costi di previdenza sociale. In una storica sentenza contro Uber, un tribunale del lavoro del Regno Unito ha rigettato l’idea che i guidatori svolgano attività interamente autonome. Il giudice ha osservato, tra l’altro, come sia impossibile per chiunque di essi incrementare il proprio volume d’affari, a meno che “accrescere il volume d’affari significhi semplicemente passare più ore al volante”.

Osservata da vicino, la gig-economy appare non la “nuova” rivoluzione digitale del lavoro 4.0, ma semplicemente il lavoro occasionale del ventunesimo secolo. La tecnologia è cambiata, ma si tratta pur sempre di lavoro svolto da esseri umani sotto il controllo di altri esseri umani, in cambio di denaro. In realtà, il “gig-lavoro” va inquadrato all’interno di una più generale tendenza alla “casualizzazione” del mercato del lavoro, nella quale rientrano anche i contratti “a zero ore” e i falsi lavori autonomi.

L’assenza di una regolamentazione – che non sia quella autonomamente disposta dalla piattaforma – fa sì che il lavoro nella gig-economy sia caratterizzato dalla precarietà e da forme di protezione scarse o del tutto assenti. È ironico pensarlo, ma nel caso dei lavoratori giornalieri, degli scaricatori di porto, e di chi lavora a giornata nei campi – le forme di lavoro occasionale che vengono più facilmente in mente – il lavoro è solitamente garantito almeno per un’intera giornata. Nell’economia delle piattaforme, la garanzia dura il tempo della prestazione. Questo può coincidere con il tempo necessario a percorrere alcuni chilometri o con i dieci minuti impiegati per “taggare” le foto su Internet.

Il turker o l’autista di Uber, o il grafico che lavora su una piattaforma di design online, devono cercare continuamente una nuova occupazione, tenendo d’occhio lo schermo del computer o dello smartphone. A conferma di ciò, dalla ricerca dell’Ilo è emerso come, in media, i lavoratori passino 18 minuti a cercare lavoro per ogni ora di lavoro effettivo. E anche quando il compito da svolgere dura alcune ore o alcuni giorni, i lavoratori hanno bisogno di cercare continuamente nuovi lavori. Il 90% del lavoratori interrogati nell’ambito della ricerca ha affermato che avrebbe preferito lavorare più a lungo di quanto stesse facendo, indicando nella mancanza di lavoro e nella scarsità del compenso le ragioni di questa esigenza.

Ma nonostante il desiderio di un numero di ore di lavoro più elevato, molti lavorano già a lungo: il 40% degli intervistati ha dichiarato di lavorare regolarmente sette giorni a settimana e il 50% ha risposto di aver fornito prestazioni “tramite piattaforma” per più di dieci ore durante almeno un giorno nel corso del mese precedente l’intervista. L’esiguità del compenso, unita al bisogno di lavorare, fa sì che i lavoratori siano costretti a passare molte ore collegati alla rete.

La mancanza di protezione per i lavoratori, la natura occasionale delle prestazioni e gli elementi di direzione e controllo esercitati dalle piattaforme giustificano la necessità di regolamentare la gig-economy. L’auto-regolamentazione da parte delle piattaforme, come avviene al momento, non può assicurare condizioni di lavoro migliori e può mettere a rischio la sostenibilità delle piattaforme “virtuose”, in quella che appare a tutti gli effetti come una corsa globale al ribasso. Non solo. A meno che le autorità non intervengano a riconoscere che nessun lavoratore debba essere escluso dalle tutele solamente perché lavora per una piattaforma, le piattaforme continueranno a godere di un indebito vantaggio sui settori tradizionali, con il rischio che si determini un deterioramento generalizzato delle condizioni di lavoro anche al di là delle piattaforme.

Ma come regolamentare? Per prima cosa, la stessa tecnologia che ha reso possibile la parcellizzazione e la distribuzione del lavoro, può essere utilizzata per regolare il lavoro e proteggere i lavoratori. La tecnologia permette di monitorare quando le persone lavorano davvero, quando cercano un lavoro e quando fanno una pausa. Essa, dunque, può essere utilizzata per accertarsi che i lavoratori guadagnino un minimo compenso prestabilito, o il salario stabilito collettivamente dai lavoratori e dalla piattaforma. Se saranno introdotte forme di protezione del lavoro, le piattaforme avranno l’incentivo a riorganizzare il lavoro per limitare il tempo di ricerca dello stesso. La tecnologia e un miglior disegno organizzativo possono aiutare a minimizzare il tempo della ricerca, migliorando l’efficienza per tutti. Ciò può anche facilitare il pagamento dei contributi sociali e previdenziali.

Con un’offerta di lavoro praticamente illimitata e l’assenza di responsabilità delle piattaforme, la “casualizzazione” continuerà. Per quanto sia facile innamorarsi del glamour e della comodità delle app e del mito che le rappresenta come il segno di una rottura definitiva con il passato, dobbiamo ricordare che queste piattaforme non sono altro che un modo per organizzare il lavoro: guidare, fare commissioni, inserire online dati o la trascrizione di file audio non sono di certo cose nuove. La tecnologia è una forza potente, permettiamole di far funzionare meglio il mondo, non di favorire la scomparsa di ciò che si è ottenuto attraverso dure battaglie in materia di diritti dei lavoratori.

Janine Berg è senior economist presso l’Ilo a Ginevra; Valerio De Stefano è labour law officer presso l’Ilo a Ginevra