L'ultimo “colpo” è arrivato il 25 settembre: l'americano Michael Kors ha comprato Gianni Versace per 1,83 miliardi di euro. È solo l’ultimo dei grandi passaggi di mano che negli ultimi anni hanno interessato i campioni del made in Italy e che hanno visto i francesi farla da padroni. Nel 1999 il gruppo Kering di Francois Pinault ha acquistato Gucci, ma nel suo “portafoglio” ci sono anche Bottega Veneta, Brioni e Pomellato. Lvmh di Bernard Arnault nel tempo ha portato oltralpe altri nostri pezzi pregiati: Bulgari, Fendi, Loro Piana. Sembra, insomma, il classico “duello” Italia-Francia, anche se progressivamente si vanno inserendo gli americani, i cinesi – Krizia nel 2014 è stata acquistata da Shenzhen Marisfrolg Fashion – e persino gli arabi (risale al 2013 il passaggio di Valentino a Mayhoola, proprietà dello sceicco del Qatar Hamad bin Khalifa al Thani).

La reazione dei media generalmente è sempre la stessa: l’Italia si svende e perde pezzi. Ma è proprio così? In un mercato globalizzato quanto conta il luogo dove sono allocati gli azionisti di maggioranza? Il tema è complesso e articolato. Donatella Versace, in un’intervista rilasciata a Repubblica appena dopo la vendita, ha ammesso esplicitamente: per competere oggi bisogna contare su investimenti che l’azienda non si sarebbe potuta permettere, “per questo la vendita è il miglior modo di rendere giustizia a questa grande storia inventata da Gianni e portata avanti da me”. E, ancora, per essere protagonisti sui mercati bisogna avere una piattaforma globale: “Solo il nuovo gruppo potrà fornirci questa piattaforma. E questa piattaforma non ha eguali in Italia e nessun altro avrebbe potuto fornircela. Alla fine non devi pensare al controllo, ma alla sostenibilità, alla crescita della tua storia”.

D’accordo con questa lettura Sonia Paoloni, della segreteria Filctem Cgil: “Anche dal nostro punto di vista queste cessioni non sono sempre negative. Sarà il tempo a giudicare. Bisogna riconoscere però che le esperienze citate sono state positive. In alcuni casi la produzione in Italia è stata rafforzata, perché un gruppo estero che acquista una ‘nostra’ maison di moda ha interesse che quei prodotti vengano prodotti in Italia: è quello il brand che li fa vendere alla fine”. Certo, non tutte le storie sono di successo: con il passaggio nel 2011 a Paris Group di Dubai, Ferré si è piano piano spenta. Michael Kors, comunque, sembra avere piani ambiziosi: ha già annunciato che acquisterà fabbriche e assumerà dipendenti in Italia. Per ora si tratta solo di una promessa, ma in un recente passato i francesi di Gucci (Kering) e Fendi (Lvmh) hanno fatto lo stesso, espandendosi nel nostro paese.

Questione di misure
Nonostante queste specificazioni, non si può non sottolineare un aspetto paradossale. Abbiamo i migliori artigiani e i manager più bravi sul mercato, ma non riusciamo a costruire un campione italiano del made in Italy. Non solo i colossi esteri che acquistano da noi generalmente mantengono una guida italiana, ma persino aziende non italiane scelgono italiani: Alessandro Bogliolo, ad esempio, è il numero uno di Tiffany, Marco Gobetti di Burberry. Durissimo il giudizio espresso da Giulio Sapelli sulle colonne del Sole 24 Ore: “L’Italia dovrebbe essere la prima multinazionale della moda al mondo. Invece per noi è più importante non far vincere gli altri, piuttosto che vincere insieme”.

Abbiamo i migliori artigiani e i manager più bravi sul mercato, ma non riusciamo a costruire un campione italiano del made in Italy

“Purtroppo – riprende la sindacalista – non si riesce ad avere la capacità imprenditoriale di investire su un progetto con uno sviluppo serio e di qualità. Proprio per questo il sindacato è molto critico verso la finanza che specula sul lavoro e non su progetti e idee che portino realmente sviluppo. In questa situazione, se non cambia la politica industriale nel paese, e in assenza di investimenti seri da parte di gruppi imprenditoriali italiani, è ovvio che le risorse che arrivano da fuori rappresentano spesso una delle poche opportunità per rimanere sul mercato”. Conferma questa lettura Luciano Fratocchi, che insegna all’Università dell’Aquila ed è esperto di made in Italy: “Se non riusciamo a costruire i cosiddetti campioni nazionali, sono gli stranieri brutti e cattivi che vengono in Italia e si comprano le nostre aziende, oppure siamo noi che in qualche modo ‘manchiamo’ a un compito importante? Sottolineo che queste acquisizioni registrano risultati spesso eccellenti. Secondo un recente studio di Prometeia i bilanci 2005-2015 delle aziende italiane acquisite da multinazionali straniere hanno fatto registrare, rispetto a quelle rimaste italiane, un +3,4 per cento di fatturato e un 1,5 per cento in più di occupati. Non solo: la produttività del lavoro è cresciuta del 3,3 per cento”.

Questo non vuol dire “che io tifi per la vendita all’estero – aggiunge lo studioso –, ma dovremmo capire perché non siamo in grado di costruire quei campioni nazionali che invece in altri settori ci sono. Poi secondo me c’è anche un problema di comunicazione: negli stessi giorni in cui Versace passava agli americani, Lavazza – che già nel 2015 aveva comprato Carte Noire, cioè una grossa fetta del mercato francese – entrava in possesso di Mars Drinks, ma la notizia la trovavi a malapena in un trafiletto in cronaca”. Per la verità anche nella moda si trovano operazioni in controtendenza, come Zegna che ingloba Tom Brown, o le espansioni di Luxottica nell’occhialeria, ma, in effetti, sono operazioni molto più sporadiche.

I bilanci 2005-2015 delle aziende italiane acquisite da multinazionali straniere hanno fatto registrare, rispetto a quelle rimaste italiane, un +3,4% di fatturato

Non sarà una certa impronta familistica a generare queste difficoltà a costruire grossi gruppi e andare fuori? Fratocchi è dubbioso: “Il familismo può essere certamente un vincolo, ma solo se non accetta di managerializzarsi. Il problema non sta nel fatto che una parte cospicua del capitale sociale sia in mano a una famiglia ma, semmai, quale autonomia la stessa famiglia è disposta a concedere ai propri dirigenti. Faccio solo un esempio: il ruolo di Leonardo Del Vecchio in Luxottica è naturalmente cospicuo, però ha saputo in certi momenti farsi affiancare da manager preparati e intraprendenti. La stessa cosa si può dire per il compianto Michele Ferrero”.

Il risultato di questa situazione è nei numeri. Il confronto tra i fatturati tra le principali aziende della moda rimaste italiane e quelle estere è impietoso. Prada, in vetta alla classifica, ha un fatturato annuo di 3,1 milioni di euro, seguono Armani a 2,3 e Calzedonia a 2,3. Così invece il podio europeo: Lmvh (Franzia, 42,6 milioni), Inditex (Spagna, 25,3 milioni), H&M (Svezia, 20,2 milioni. E torniamo al tema: con numeri così piccoli è sempre più difficile competere in un mercato globale.

Quanto conta il marchio Italia
Una delle prime cose che ha fatto Michael Kors subito dopo aver acquistato Versace è stato cambiare nome al suo gruppo, che è diventato Capri Holdings. Forse questa operazione ci può far sorridere, con quel “Capri” che rimanda a un’idea un po’ stereotipata del nostro paese. Ma il significato è indubbio: il brand Italia va esibito perché nella moda è sinonimo di qualità, eleganza, cura dei particolari. Chi acquista un prodotto italiano, acquista questo valore aggiunto e vuole che sia davvero tale.

L’importanza di questo fattore è evidente in un altro fenomeno, quello del cosiddetto reshoring, e cioè quei movimenti per cui aziende, che magari avevano puntato a risparmiare portando delle produzioni all’estero, hanno poi fatto una repentina marcia indietro, riportando tutta o parte preponderante della filiera in Italia. “Solo lo scorso anno – evidenzia Fratocchi – ci sono stati 121 casi di reshoring, il 40 per cento proprio nel settore della moda. E la motivazione principale è sempre la stessa: i clienti, soprattutto nei mercati asiatici – che sono quelli che in questa fase tirano di più – vogliono un vero ‘made in’, pretendono cioè che i prodotti siano integralmente realizzati in Italia. Ci sono retailer, distributori che vogliono la certificazione persino di un’asola, del filo, di un bottone: tutto deve essere italiano al 100 per cento”.

Il peso della filiera
Tra i fattori che determinano un giudizio positivo o negativo sulle acquisizioni estere, c’è naturalmente – oltre al successo industriale – anche il rispetto dei diritti e della qualità del lavoro, che ovviamente riguarda tutte le aziende, a prescindere da dove si colloca la proprietà. Quella che oggi si definisce la responsabilità sociale d’impresa. Tutti ricorderanno la strage del Rana Plaza a Dacca: il 24 aprile 2013 il crollo di un edificio di otto piani a Dacca causò la morte di 1.129 lavoratori tessili che operavano in totale assenza di qualsiasi condizione di sicurezza. La coscienza di molti occidentali si svegliò turbata dallo scoprire che queste persone lavoravano per una paga misera per tanti marchi molto noti. Tra questi anche l’italiana Benetton che risarcì le vittime con 1,1 milioni di dollari, cifra che in molti hanno considerato non più che un’elemosina.

Quanto più si allunga la filiera, tanto più sono difficili i controlli

“C’è una questione importante – spiega Paoloni – che riguarda la filiera: nella moda sono coinvolti tantissimi lavoratori. Quanto più si allunga la filiera produttiva, tanto più aumenta il rischio di un mancato controllo su tutta la catena di fornitori, subfornitori, contoterzisti”. “Effettivamente – osserva Fratocchi – esistono importanti accordi territoriali per il controllo etico della subfornitura, ma quando si produce all’estero, a migliaia di chilometri di distanza, vigilare diventa molto più difficile. Certo è che, oltre ai costi umani, una vicenda come quella del Rana Plaza ha sull’immagine delle aziende coinvolte una ricaduta pesantissima da cui è difficile riprendersi del tutto”.

La contrattazione: il caso Gucci
Su questo capitolo il ruolo della contrattazione resta comunque centrale. “A Prato – aggiunge Paoloni – abbiamo stipulato un’intesa sulla legalità per ‘colpire’ soprattutto quegli opifici cinesi che operano senza nessuna tutela per i lavoratori. Inoltre, nell’ultimo contratto del settore artigiano abbiamo firmato con le controparti un avviso comune sulla responsabilità in solido del committente nei confronti di appaltatori e subappaltatori che riguarda salario, diritti, previdenza eccetera”. È molto importante, da questo punto di vista, il lavoro che si fa sul territorio. “Dietro l’eccellenza di tanti splendidi abiti che ammiriamo – conferma Simona Lupaccini, della Filctem Milano – ci sono le mani delle nostre sarte, la bravura dei nostri artigiani. C’è tutta una parte importante di lavoratori in piccole aziende che sono al servizio di marchi importanti e spesso ne determinano le fortune, ma sono meno visibili e dunque vanno tutelati con grande impegno”.

Proprio con Gucci i sindacati hanno sottoscritto un accordo che impedisce di andare oltre il secondo livello di subfornitura, così da permettere una vigilanza più certa sul rispetto dei diritti dei lavoratori nella filiera. Anche per questo la cessione nel 1999 a Kering del gruppo fondato a Firenze nel 1921 rappresenta una storia di successo. Oltre al citato accordo, va sottolineato il fiore all’occhiello di Guccilab inaugurato lo scorso aprile: 37.000 metri quadrati di spazi, 800 dipendenti e tanta sperimentazione tra innovazione e tradizione artigianale che non sono affatto in contraddizione tra di loro, come pure superficialmente si potrebbe pensare. “Non c’è dubbio – ci dice Alessio Vannacci, Rsu Filctem alla Gucci di Firenze –: in 18 anni il fatturato dell’azienda è cresciuto tantissimo e questo ha portato grandi benefici non solo al ‘cuore’ fiorentino dell’impresa, ma anche alle altre sedi di Novara, Milano e Roma. Il bilancio del passaggio in mani straniere non può dunque che essere positivo: l’azienda ha fatto tanto non solo per i dipendenti, ma anche per il territorio, preservando la sua grande vocazione artigianale, consapevole del fatto che se disperdiamo le conoscenze poi è difficile continuare a realizzare quei prodotti che il mercato, a velocità sempre più crescente, ci chiede”.

In Gucci non si va oltre il secondo livello di subfornitura

Un mercato ricordiamo, quello della moda, in cui il nostro paese ha deciso per una volta di puntare quasi sempre su una competizione di alta qualità e non al ribasso. Si tratta di una strategia che ha finora preservato il settore dall’avanzata dei concorrenti asiatici. Ed è grazie a queste scelte che la moda si conferma comparto trainante per l’economia italiana, con un fatturato di 83 miliardi e un valore aggiunto di 24,2 miliardi. Più di un terzo del valore aggiunto generato dal sistema moda nell'Unione europea è made in Italy, cinque volte tanto la quota francese.

“Il settore ha attraversato sicuramente momenti di difficoltà e in qualche caso un pezzetto della filiera si è perso – spiega Fausto Bacchini, responsabile risorse umane del Gruppo Aeffe, che comprende marchi importanti come Alberta Ferretti, Moschino e Pollini –. Diciamo che se si rimane italiani ‘puri’, sulla gamma bassa della produzione è difficile rimanere competitivi. Il costo del lavoro resta però un problema: lo scontano le aziende (con la ricaduta sul prezzo finale di vendita) e i dipendenti nelle buste paga”. È il vecchio, ma ancora cruciale, tema del cuneo fiscale, di cui però nessuno sembra parlare più.

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