Ci sono storie di uomini, storie che non appaiono nei libri di testo, in cui l’intera vicenda di un paese e di un’epoca, con i suoi contraddittori passaggi, precipita e prende forma. La storia di Bonaventura Alfano, che un male ostinato ha interrotto pochi giorni fa, il 15 settembre, è una di queste.

Melfi e la Lucania povera degli anni 50, poi l’emigrazione a Torino, non ancora ventenne, nel marzo del ’64, la Fiat e la Meccanica di Mirafiori, l’esplosione operaia del ’68-69, il ruolo dirigente nelle lotte di quella stagione, quindi l’esperienza politico-amministrativa – come consigliere comunale del Pci e assessore al Lavoro nella seconda giunta Novelli –, la sconfitta dell’80 alla Fiat e gli operai che diventano invisibili, poi gli ultimi anni, la sinistra divisa e impotente, il paese in mano a Berlusconi e un incubo che non finisce mai; il cuore a Mirafiori e la terra d’origine – dove intanto arrivava la fabbrica degli Agnelli – mai dimenticata, Bonaventura ha vissuto il suo tempo con fatica, entusiasmo, speranza, anche qualche amarezza, ma sempre con l’intelligenza, e l’ironia, di chi sa guardarsi intorno senza rifugiarsi nella retorica di un facile passatismo.

Ragione essenziale, questa sua avventura – insieme alla vivacità con cui sapeva raccontarla (esemplare in tal senso Mirafiori e dintorni, libro del ’97 a cura di Ivano Franco, pubblicato da Ediesse) –, per cui negli anni, ogni qualvolta Rassegna ha sentito il bisogno di soffermarsi sui momenti topici della vicenda del movimento operaio e sindacale, ci siamo istintivamente rivolti a lui: il centenario della Cgil e la Mostra Rossa commentata con Giuseppe Berta in occasione dell’allestimento torinese del 2008; poi il fascicolo speciale di Rassegna per il primo maggio 2009 dedicato ai quarant’anni dell’autunno caldo; e da ultimo, lui già malato, nella scorsa primavera, per il numero del Mese di Rassegna sul centocinquantesimo dell’unità d’Italia, la testimonianza sulla manifestazione di Reggio Calabria dell’ottobre 1972, gli operai scesi nella città dello Stretto stremata dalla rivolta dei “boia chi molla” a dire – “Nord e Sud uniti nella lotta” – che la via del riscatto non era la separazione ma l’unità con i lavoratori dell’industria: l’unificazione reale del paese, delle sue culture, dei suoi sentimenti.

Culture e sentimenti che appunto nella persona di Bonaventura si sono felicemente mescolati. Di famiglia poverissima – “la grotta”, chiamava scherzosamente ma non troppo la casa di Melfi –, a Torino Alfano aveva trovato nella Fiom, nella Cgil e nel Pci – il partito di Gramsci, dell’Ordine nuovo e della “quistione meridionale” – gli strumenti non solo per combattere la fabbrica-caserma, i ritmi spietati di Mirafiori, ma le idee e le concrete politiche per un più radicale riscatto: dall’antica soggezione dei “cafoni” del sud, dalla servitù come destino. Trentin, Garavini, i consigli di fabbrica e, insieme, l’anima ribelle di Di Vittorio: la memoria del giovane sindacalista che insegna ai braccianti di Cerignola – alba del 900 – a non togliersi la “coppola” davanti ai “signori”. Bonaventura era questo. Le sue ceneri riposano ora a Torino, in una città, e una terra, che ha contribuito a cambiare.