Nei dibattiti che con sempre maggior frequenza si tengono sul ruolo e sulla strategicità delle politiche industriali, il settore della logistica viene spesso indicato come marginale rispetto alla sfida competitiva del Paese, mentre, al momento di passare alle proposte concrete, ci si limita quasi sempre a rivendicazioni riguardanti nuove dotazioni infrastrutturali. In realtà, affrontare il rapporto fra logistica e industria di fronte alle trasformazioni in atto, significa partire da dove si è determinato quello che abbiamo più volte definito il “cambio di paradigma” della digitalizzazione.

Stefano Musso, docente di storia contemporanea all’Università di Torino, rispondendo lo scorso ottobre alle domande di Rassegna Sindacale, ha osservato che mentre per le prime due rivoluzioni industriali le definizioni sono oramai consolidate, sulla terza si può affermare che l’elemento caratterizzante è rappresentato dal computer che flessibilizza la produzione da un lato e globalizza i mercati finanziari dall’altro. Al quale si affianca il container, che globalizza il mercato delle merci, accelerando la velocità delle transazioni e l’abbattimento dei costi di trasporto.

Computer e container, produzione e logistica, un modello che è stato egemone per circa 20 anni. Questo modello ha però fondato la sua forza sulla prima globalizzazione, quella che ha inseguito la competitività, rincorrendo i Paesi a minor costo del lavoro (la delocalizzazione competitiva). Una globalizzazione ancorata a una divisione internazionale dell’economia, che affidava all’Occidente i mercati e la finanza e agli altri, soprattutto ai Paesi del Pacifico, quella produttiva. Per rispondere a quel modello si sono modificate navi e scavati porti, allargate aree di interporto, costruiti nuovi corridoi e nuovi flussi per le merci. La logistica è diventata una fase esterna al ciclo produttivo.

Le esternalizzazioni di queste attività hanno favorito la crescita e anche la nascita di veri e propri colossi logistici globali e di un pulviscolo di tante piccole imprese locali con condizioni di lavoro e sfruttamento spesso non dissimili da quelle dei Paesi dove si delocalizzava. Nel frattempo però la globalizzazione è cambiata, i Paesi emergenti hanno conquistato posizioni sia nella finanza che nei consumi e sono a tutt’oggi importanti mercati. Non vi è dubbio che questo cambiamento impatti profondamente anche sull’economia del container. Cambiano i saldi commerciali tra Stati, cambiano qualità e intensità degli scambi. Già nel 2010, per fare un esempio, il 45% dei container che partivano da Port Elisabeth, alla periferia di New York, erano vuoti. Più recentemente la terza società mondiale di shipping è fallita. Alcune delle grandi navi porta container non solcano più gli oceani, ma si sono convertite in magazzini galleggianti.

È in ragione di processi come questo che, contrariamente a tanta retorica sulla progressiva riduzione della manifattura nei Paesi avanzati a favore di quelli in via di sviluppo, si assiste negli Usa e in Europa alla nascita di iniziative governative di “Rinascimento industriale”. L’Europa si è data l’obiettivo di raggiungere il 20% di contributo dell’industria alla formazione del Pil entro il 2020. È in questo nuovo ambito che va ripensata la sfida industriale e il suo rapporto con la logistica. Rapporto che con l’avvento della digitalizzazione esce persino rafforzato, perché è chiaro che se l’Europa vuole evitare che i leader del settore digitale (tutti operanti nell’area californiana) le portino via la produzione industriale, deve realizzare rapidamente la fusione tra questi due mondi. Così come è altrettanto chiaro che questa fusione può avvenire solo attraverso un progetto di politica industriale.

Riguardo al ruolo della logistica, Wolfang Schroeder, docente dell’Univeristà di Kassel, nel descrivere le opportunità offerte dalla digitalizzazione, indica quattro ambiti di intervento: il miglioramento del processo produttivo, il miglioramento nel rapporto con i clienti, il miglioramento nei prodotti ibridi e negli smart service correlati e, appunto, il miglioramento della logistica, per la quale con la digitalizzazione si riescono a ottenere flussi di merci e informazioni più efficienti, una riduzione dei tempi di stoccaggio, per una maggiore efficienza degli impianti, offrendo inoltre nuove opportunità commerciali.

Basti vedere come la Mercedes Veicoli Industriali, lavorando in just & time e just & sequence, assicuri l’approvvigionamento della linea di assemblaggio direttamente e in tempo reale dalla catena di subfornitura globale, grazie a un articolato sistema logistico interno che conta oramai più addetti diretti di quelli della linea stessa. In questa realtà, la logistica non solo non è esternalizzata, ma rappresenta un fattore strategico della qualità e del successo di tutta l’azienda. Allo stesso tempo, assistiamo a processi diversi, dov’è la logistica che integra la propria missione, come nel caso dell’apertura da parte di Amazon di un proprio supermercato (Amazon Go), sfruttando la propria capacità logistica per entrare direttamente nel mercato dei consumer. O ancora, il concorso Robotics Challenge di Dhl, che apre alla open innovation per poi investirci direttamente.

Tutto questo non rappresenta purtroppo il baricentro della situazione italiana, caratterizzata non solo da un eccesso di frantumazione, ma da un sistema di imprese destrutturato, fondato in molti casi sul dumping sociale e imprenditoriale, figlio della logica del massimo ribasso, a partire da quelle false cooperative dove si determinano condizioni di lavoro più vicine alla schiavitù che al lavoro dipendente. Contraddizioni e abusi che andranno obbligatoriamente risolti.

La complessità della sfida, ma anche la sua ineluttabilità, è tutta qui. Non si tratta, come crede qualcuno, di mettersi o dalla parte del lavoro o da quella delle macchine, ma di come salvare il lavoro nel tempo delle nuove macchine. Il Paese ha già perso molte occasioni, nonostante si resti la seconda manifattura europea; è sceso molto il nostro “rango”, siamo arrivati in ritardo sulla prima globalizzazione e corriamo il rischio di esserlo anche sulla seconda.

Il capitalismo italiano è lento, aggrovigliato, opportunista. Nonostante ciò, deve capire che siamo a un passaggio cruciale: deve spostare sul terreno del valore la sfida competitiva, nella consapevolezza che non ci sono né scorciatoie, né alternative. Gli anni già trascorsi di questa crisi certificano la nostra debolezza, abbiamo perso un quarto della capacità produttiva, posti di lavoro e investimenti e non certo a causa dell’innovazione, dal momento che circa i tre quarti delle imprese cessate non usavano Internet. Bisogna quindi rimettere in moto il processo che da troppo tempo si è bloccato.

Questo vuol dire investimenti in innovazione, in organizzazione, in internalizzazione, tornando a mettere le risorse nelle imprese e non nelle rendite. Significa considerare il fattore umano, la persona che lavora, la sua creatività e responsabilità come la prima ricchezza intangibile dell’impresa. Una ricchezza da valorizzare con luoghi aperti, meno gerarchici, più attenti ai processi formativi.

Chiarito tutto questo, le notizie che seguono sono – come nella più classica delle tradizioni – di segno opposto, una buona e una cattiva. La buona è che siamo in una transizione che è appena iniziata, questo significa che c’è il tempo per fare scelte giuste e condivise che possano colmare il ritardo. Diego Ciulli, Policy manager di Google, ci ricorda che gli stessi Usa utilizzano solo il 18% del proprio “potenziale digitale”. La cattiva notizia è data dal fatto che il tempo che abbiamo a disposizione è breve. Non avremo piu fasi nelle quali per raggiungere la propria massa critica una tecnologia impiegava decenni (68 l’auto, 50 il telefono…). Oggi siamo passati dai 14 anni del Pc ai sette di Internet, ai due di Facebook.

Non è solo la legge di Moore ad accelerare questo processo. I prezzi e la concorrenza stanno dando una grande mano in questa direzione. Basti pensare al fatto che in soli 10 anni nel campo degli smartphone si è passati da un oggetto che non esisteva a miliardi di esemplari connessi con una rete di migliaia di aziende. Da una costosa novità a un prodotto low cost. È abbastanza evidente, quindi, come il tempo non sia una variabile indipendente se il nostro Paese non vuol essere tagliato fuori. Abbiamo un buon vantaggio sulla manifattura, ma secondo l’apposito indicatore messo a punto dalla Commissione europea per misurare il livello di digitalizzazione dell’economia sui 28 Stati membri, l’Italia occupa un poco lusinghiero 25° posto.

Anche per questo non abbiamo contestato il provvedimento di Industria 4.0 del ministro Calenda, indicandone anzi i punti di forza e di debolezza con spirito costruttivo. Perché tutti noi sappiamo che quel provvedimento è un passo importante e nuovo, ma che da solo non può bastare. Non ci si può occupare troppo delle tecnologie e poco delle necessarie politiche di sostegno sociale, senza affrontare in primo luogo il tema delle competenze dei lavoratori occupati con un grande piano formativo per l’inclusione digitale. Perché senza competenze non avremo mai un ambiente favorevole all’innovazione. Non è più tempo di indugi.

Lo dico consapevole di essere tra coloro che credono che l’innovazione sia una delle espressioni dell’intelligenza e della creatività dell’uomo, così come resto convinto dell’attualità del pensiero di Cesare Luporini quando affermava che “la ferita inferta dall’uomo alla natura può esser recuperata solo dalla tecnologia sviluppata dall’uomo”. Ma non possiamo nascondere il fatto che siamo di fronte a un passaggio nel quale il rapporto tra uomo e macchina, tra umanità e scienza, fra tecnologia e lavoro è cambiato. Senza un governo di questo processo si rischia di compromettere la coesione, a partire dal tema dell’occupazione. È una responsabilità storica: se non vogliamo che anche questo tema sia agito dai populismi è del tutto evidente che c’è bisogno di definire un nuovo compromesso sociale.

Un compromesso fondato sull’inclusione e non sulla discriminazione, sulla responsabilità e non sulla subalternità. Sul valore del lavoro. Non possiamo essere certo noi a sottovalutare i rischi o a manifestare un atteggiamento passivo e deterministico verso questo cambio di paradigma e considerarne oramai ineludibili gli approdi. Cito ancora, su questo punto, il professor Musso, il quale ci segnala il rischio di come le tendenze in atto possano muovere all’indietro gli assetti socio-economici, in direzione del lavoro ottocentesco. Il Jobs Act è lì a testimoniarlo.

Oggi, ovviamente, i contesti sono diversi e però per chi ritiene che la democrazia economica sia fondamentale componente della democrazia tout court, potrebbe valere l’osservazione che assai breve nella storia è stata l’affermazione di una democrazia sostanziale. Quell’età dell’oro fu pagata con il lavoro monotono, ripetitivo e rigidamente disciplinato, e per questo oggi non è più riproponibile. Così come non lo è il pensiero unico neoliberista che ha prevalso negli ultimi 30 anni, consegnandoci un quadro inedito di crescita delle disuguaglianze.

Industria 4.0 sembra aprire opportunità di miglioramento della qualità del lavoro, di riduzione della dimensione gerarchica e autoritaria dell’impresa, di flessibilità capace di compenetrare le esigenze delle imprese e dei lavoratori. Si tratta però di un esito per nulla garantito, che forse sarà ottenibile con una mobilitazione che attivi, attraverso un fattivo confronto sociale, adeguate politiche contrattuali e un processo capace di ridefinire il profilo dei diritti nel rapporto di lavoro. Ciò che sta provando a fare la Cgil con la Carta dei diritti universali e con il Piano del lavoro.

Formazione continua, welfare, innovazione e partecipazione sono i terreni sui quali occorre incentrare l’impegno nell’allestimento dei cantieri progettuali che indirizzino i cambiamenti verso le opportunità positive di Industria 4.0 e ne smussino i contraccolpi negativi in termine di rischi di esclusione. Sindacalizzando questo processo, con proposte e interventi che rivendichino investimenti in qualità, in sostenibilità, in salute e sicurezza. Incrociando su questi temi antichi le opportunità tecnologiche più avanzate e provando a perseguire, anche attraverso la contrattazione, quella ricomposizione della catena del valore e della filiera necessari per dare un modello di specializzazione più alto al nostro apparato produttivo.

Alessio Gramolati è il responsabile del coordinamento Politiche industriali della Cgil nazionale