Il 2014 è stato un anno nero per il commercio. Il segno che la crisi economica, sociale e produttiva in atto è effettivamente profonda. Ma cosa si cela dietro le difficoltà di un settore tanto peculiare per l’economia del nostro paese? Non è facile rispondere, perché riflettere sul commercio (allargato) presuppone una griglia interpretativa che tenga conto delle categorie produttive e delle classi sociali, unitamente a una corretta interpretazione del ciclo economico (depresso) che ha modificato i comportamenti e le abitudini delle famiglie.

Riprendendo una nota categorizzazione di Paolo Sylos Labini (“Le classi sociali negli anni ’80”, 1987, Laterza), in cui la “classe operaia” produce reddito (ricchezza), mentre la “classe media” realizza servizi, il ruolo e il peso dei così detti servizi nella formazione del reddito (Pil) assume il duplice ruolo di bene intermedio quando è sussunto dal processo produttivo (marketing, finanza, assicurazione, informatica, ecc. ), e veicolo di vendita di beni di consumo prodotti da imprese manifatturiere e financo di servizi.

La categorizzazione del settore commercio nel contesto delle attività produttive è di particolare utilità per interpretare la natura del settore. Da un lato, concorre alla formazione del valore aggiunto del settore manifatturiero quando è all’interno della filiera produttiva della stessa; dall’altra, è veicolo-punto di incrocio tra la domanda dei consumatori e l’offerta di beni delle imprese.

Se il commercio come bene intermedio è soggetto alla dinamica e alle aspettative delle imprese, quindi agli investimenti delle stesse, il settore del commercio come veicolo-nodo della vendita di beni di consumo riflette i comportamenti delle famiglie e la percezione che le stesse hanno del reddito disponibile. In altri termini, la seconda faccia della medaglia del settore del commercio, quello di veicolo della produzione altrui, è profondamente legato al ciclo economico, ma ancor di più al reddito disponibile.

Più precisamente, il commercio registra prima di qualsiasi altro settore il funzionamento della Legge di Engel: al cambiare del reddito si consumano beni diversi. La compressione di reddito disponibile intervenuta dal 2008 all’inizio non ha intaccato i comportamenti delle famiglie fin tanto era possibile ricorrere al risparmio accumulato, erosa una parte rilevante del risparmio il target dei consumi, financo quello dei beni primari, ha cambiato segno.

La crisi di struttura del commercio, in particolare quella legata direttamente ai consumi delle famiglie, si manifesta a partire dal 2011; non solo e non tanto in ragione delle politiche economiche di austerità, quanto piuttosto dall’erosione dei risparmi e dalla difficoltà di “ri-produrre” il reddito da lavoro. Per questo il settore del commercio all’inizio della crisi ha resistito meglio degli altri il peso della crisi economica. Alcuni consumi sono incomprimibili, così come sono resistenti alcuni consumi legati allo stile-cultura di vita che nel tempo le famiglie hanno interiorizzato.

Eroso il risparmio accumulato, cresciuta la disoccupazione, aumentata la quota di popolazione inoccupata, il settore del commercio intercetta nel 2011 la crisi iniziata nel 2008. La crescita negativa del Pil ha dapprima eroso il 20 per cento della struttura produttiva, interessando da subito il settore del commercio legato ai servizi alle imprese (beni intermedi), successivamente ha condizionato i comportamenti delle famiglie, con l’effetto di erodere la domanda che sostiene il commercio di beni e servizi al consumo.

Il settore del commercio, nonostante alcune indagini sottolineano il problema generazionale del passaggio di proprietà, oppure la carenza di innovazione, rimane un settore etero-diretto dalla domanda aggregata. La stessa dinamica storica del settore è contrassegnata dalla crescita del Pil. È un processo noto e diffuso in tutte le economie avanzate. Progressivamente il lavoro si sposta dai beni primari ai beni secondari, per arrivare ai beni terziari. Diversamente, sarebbe incomprensibile la crescita del peso statistico del commercio nell’insieme degli altri settori, con un peso prossimo al 40 per cento, che fa il paio con il peso occupazionale sul totale dell’occupazione prossimo al 45.

Alcune indagini attribuiscono al carico fiscale delle famiglie e delle imprese l’attuale crisi dei consumi e della produzione. Tesi veicolata da molti, ma occorre ricordare (sempre) che il fisco interviene dopo che si è realizzato il reddito. Non solo. Se la tesi fosse vera, tutti i paesi con alta pressione fiscale dovrebbero registrare lo stesso fenomeno. La realtà è invece un altra. Si pensi alla pressione fiscale dei paesi nordici che non compromettono la formazione-crescita del Pil.

Il consolidamento o il rafforzamento del settore del commercio, visto come bene intermedio e come veicolo-punto di vendita, è direttamente proporzionale alla dinamica del Pil e alla componente industria (allargata). Sostenere che la ripresa passa dal consolidamento del commercio in ragione del peso specifico dell’occupazione sul totale, significa confondere causa ed effetto. Il settore del commercio è veicolo di reddito già prodotto; non genera valore aggiunto (in proporzione) se non per la parte relativa ai servizi alle imprese.

Un'altra caratteristica (recente) del settore del commercio è quella della concentrazione. La chiusura di molti piccoli centri commerciali, di negozi, ancorché insediati in aree storicamente destinate al commercio, è l’effetto di un processo obbligato di riduzione dei costi fissi. Quando la domanda si comprime o diventa domanda di sostituzione (si ricordi che all’aumentare del reddito si consumano beni diversi), utilizzata tutta la flessibilità possibile dal lato del lavoro, la via maestra per conservare un certo margine di profitto è quella di ridurre i costi fissi di funzionamento. Per questo le società più solide finanziariamente e con certe economie di scala intraprendono la “guerra” dei prezzi.

In questo modo, le società più piccole e con costi fissi più alti, quindi con minori margini di manovra per conservare i propri margini di profitto, sono costrette a chiudere, liberando quote di mercato. Da un punto di vista microeconomico, si consolida un sistema di imprese più efficiente, ma da un punto di vista macroeconomico il paese perde domanda in ragione della perdita di occupazione netta.

Quando le rappresentanze di categoria sostengono che la crisi colpisce soprattutto le imprese commerciali meno innovative, che non hanno puntato sul miglioramento dei processi organizzativi e del capitale umano, con particolare riferimento ai negozi al dettaglio dei centri storici, mentre il settore nell’insieme resta vivace, descrivono l’incombenza di una fase (storica) di ristrutturazione del settore del commercio, guidata dalla necessità di ridurre i costi fissi. Un fenomeno che diventa ingovernabile tanto più la politica rinuncia a fare politica economica e industriale.

Non si dimentichi che il settore è sostanzialmente etero-diretto dalla dinamica del Pil e dalla capacità di agganciare servizi innovativi per imprese innovative. Se non abbiamo imprese innovative è difficile veicolare servizi innovativi, quindi produrre valore aggiunto ad alto contenuto tecnologico. Solo a questa e stringente condizione il “distretto commerciale” può contribuire a rendere più strutturato il rapporto tra reti di impresa e territorio.

La specializzazione territoriale del commercio è direttamente proporzionale alla specializzazione produttiva delle imprese, così come alla dinamica del reddito (Pil).