Vincere il premio Pulitzer e il National Book Award nello stesso anno non è per molti, tutt’altro. Nell’impresa è riuscito Colson Whitehead con il suo ultimo libro, “The Underground Railroad”, pubblicato in Italia nella collana “Big Sur”, delle Edizioni Sur, per la splendida e al solito accurata traduzione di Martina Testa (pp.376, euro 20). Elemento diegetico della narrazione, oltre alla protagonista Cora, che descrive, nella sua storia di fuggitiva da una piantagione di cotone, la vicenda familiare di tre generazioni declinate al femminile, l’invenzione, da parte dell’autore, di una ferrovia posta sottoterra nel Sud degli Stati Uniti nella prima metà dell’Ottocento.

Più che d'invenzione, però, si dovrebbe parlare di espediente letterario ricavato dagli accadimenti storici, dato che, come lo stesso Whitehead ha chiarito nel corso di un incontro tenutosi a Roma per presentare il volume, “sin da piccoli, noi afroamericani sentiamo parlare di questa ferrovia sotterranea nei racconti che ricordano la storia dei nostri avi; ma, in realtà, con questa definizione s'intende quella sorta di cordone umanitario che si realizzò a cielo aperto tra bianchi e neri, nel tentativo di salvare il maggior numero possibile di persone dall’abominio della schiavitù, trasportandoli in ogni modo nel Nord del Paese. E quando, crescendo, ti rendi conto che in realtà la ferrovia sotterranea non è mai esistita, un po’ ci resti male. Così ho pensato di realizzarla come immagine letteraria funzionale allo sviluppo narrativo di questo libro”. Nello svolgersi dei capitoli, nell’alternarsi delle vicende dei molti personaggi, con annotazioni anche documentaristiche, Cora, insieme al suo compagno di viaggio Caesar, scopre che in forme diverse, ma sempre efferate, la persecuzione contro i neri colpisce numerosi stati, e che l’inconcepibile brutalità del razzismo sembra non conoscere fine.

Per rendere al meglio l’ambientazione del periodo, nell’incastro narrativo Whitehead inserisce in alcuni passaggi anche dei veri e propri "annunci", ricavati dalle carte di archivio, che i padroni bianchi distribuivano in caso di fuga dei loro schiavi. Uno tra questi recita: “Fuggita o portata via. Dalla residenza del sottoscritto, nei pressi di Henderson, il 16 cm, una ragazza nera di nome Martha, di proprietà del sottoscritto. La suddetta ragazza è di carnagione marrone scura, corporatura snella e lingua molto sciolta, e ha circa 21 anni di età; portava una cuffia di seta nera con delle piume; e aveva in suo possesso due trapunte di cotone. Mi dicono che cerca di passare per una ragazza libera. Ridgon Banks, Contea di Granville, 28 agosto 1839”.

Senza dubbio, la descrizione di questa ragazza è stata una tra le fonti d'ispirazione per la figura di protagonista voluta dallo scrittore: Cora rappresenta tutte le Martha che hanno cercato, con più o meno fortuna, la strada della libertà, la fuga disperata dalla follia umana del tempo; un tempo ormai lontano, ma non così lontano come lo scorrere degli anni potrebbe far credere. Lo stesso Whitehead, sollecitato a definire una relazione tra quel passato e il suo pesente, risponde con velata ironia e manifesto cinismo: “Non vorrei apparire stucchevole, ma in fondo per noi afromericani non è che le cose siano così tanto cambiate. Certo, la presidenza Obama ha sorpreso molto i miei genitori, i miei nonni, che hanno vissuto una vita diversa, e mai avrebbero pensato di poter vedere un nero alla Casa Bianca. Ma nella realtà delle cose, nella vita di tutti i giorni, molti afroamericani vengono ancora discriminati: dalla polizia, ad esempio, e dalla società americana in genere. Il fatto è che la nostra cultura compie alcuni passi in avanti e altri indietro. Penso ai libri di scuola, dove nelle ricostruzioni storiche sono scomparsi i capitoli riguardanti l’epoca della schiavitù, per l’appunto, ma anche quella dello sterminio della popolazione indiana”. La lettura di questo libro potrebbe ricominciare a insegnarci qualcosa.