... ed è arrivato un titolo magnifico, La formazione dell’Italia, che allude alle due faccende comparate e anche a una specie di geologia del suolo d’Italia. Meglio di così non poteva andare. Dicono nelle redazioni dei giornali che quando il titolo è giusto, l’articolo ha un suo centro preciso. Così, vorrei continuare con la questione affacciata nella nota precedente.

Tutto è cambiato, nel corso degli anni, dai dirigenti ai calciatori ai tifosi, ma la squadra si chiama ancora Spal o Sampdoria. Tutto è cambiato, in centocinquanta anni, ma la nostra terra, Patria o Paese, si chiama ancora Italia. Paese veniva preferito a sinistra, Patria a destra. Patria però è una parola bellissima, consumata dalla retorica soprattutto bellica. Bisogna riappropriarsene, lasciando stare che coloro che l’hanno usata sempre per pura retorica cantino vittoria a vanvera.

Ma il discorso per proseguire una volta tanto una nota con una nota affine sta nel fatto che, interrogandomi su che cosa consente di tifare per una squadra che ha tenuto intatti nel corso del tempo solo i colori, ho concluso che la continuità è data dalla contiguità. Ovvero, per le squadre di calcio, così come per il Paese o la Patria, la trasmissione di certe tradizioni “astratte” per natura (l’identificazione con un ideale è astratta per quanto concreto sia colui che si identifica e colui che è identificato: le relazioni tra cose sono sempre insomma un po’ astratte) avviene per contatto, per vicinanza. Chi oggi sta in campo, nel calcio, o sul suolo d’Italia, come cittadino, è il risultato di una lunga catena, perché questa catena di derivazioni e di vicinanze non si è mai interrotta. Il più anziano di oggi, da giovane fu in campo con un anziano che fu giovane a sua volta eccetera. All’indietro, le generazioni si toccano. È ciò che possiamo chiamare contiguità storica: toccarsi nella storia (che, sia detto per inciso, dà anche nuova dignità al verbo “toccare”, sottraendolo all’ambito del bungabunghese).