Ecco un’altra autoanalisi della sinistra italiana da incorniciare e custodire in un angolo della memoria. Occasione, a Roma il 15 aprile scorso, la proiezione del documentario “scandalo” sulle Brigate rosse Il sol dell’avvenire, di Giovani Fasanella e Gianfranco Pannone. Lo scandalo, per chi ancora non lo sapesse, risale a qualche mese fa, quando (agosto 2008) il ministro dei Beni culturali Sandro Bondi scomunicò il film (realizzato anche con fondi pubblici) giudicando che offendesse “la memoria delle vittime del terrorismo”. Censura che costò alla pellicola (presentata e applaudita al festival di Locarno) un parziale oscuramento dalla distribuzione. E un lungo calvario che però, proprio grazie all’anatema bondiano, ha fruttato anche una paradossale celebrità che ha consentito ai due autori (Fasanella, giornalista e autore di diversi libri sul terrorismo, tra cui quello a quattro mani con Alberto Franceschini che ha ispirato il film; Pannone, regista con documentari importanti alle spalle: Pomodori, Latina/Littoria) la pubblicazione del film in un cofanetto dvd+libro per Chiarelettere. Un caso italiano. Un caso di censura. Ma quando ci sono di mezzo le Br, la storia non è mai semplice: un film diventa più di un semplice film, e un dibattito sul film tracima nell’autocoscienza.

La proiezione, piuttosto carbonara (non nel senso della pastasciutta ma in quello risorgimentale) e affollatissima, si tiene nell’ormai storico scantinato dell’Apollo 11 a Piazza Vittorio. Qui, tra film e dibattito, abbiamo trascorso più di tre ore assieme agli autori, ai registi Daniele Luchetti e Carlo Lizzani, al senatore Pd Vincenzo Vita, all’inviato di Liberation Eric Jozsef. E tra il pubblico: il produttore Marco Visalberghi, la decana dei documentaristi italiani Cecilia Mangini, l’attrice Elvira Giannini (già interprete della brigatista Fulvia Miglietta in un altro film sfortunato: il Guido che sfidò le Brigate rosse di Giuseppe Ferrara). E poi due protagonisti di quegli anni, seduti agli antipodi della sala quasi a marcare nella collocazione l’abisso tra i ruoli: a destra dello schermo (ma è solo un caso) il giudice Rosario Priore, che indagò sul caso Moro; e a sinistra il post brigatista Valerio Morucci, che Moro lo sequestrò. Insomma, le premesse per una serata particolare ci sono tutte. Il parterre è dei più promettenti. Unico neo, e vistoso, l’assenza delle vittime: nessuno a parlare per loro. Il che ingenera il sospetto (confermato a fine serata) che si stia per assistere all’ennesima discussione “a sinistra”, con l’inevitabile riduzione di un capitolo della storia d’Italia (e di tutti gli italiani) ad album di famiglia, con la traduzione del discorso pubblico nel bignami dell’arcinoto lessico famigliare gauchista.

Ma prima di tutto, buio in sala. Spazio, e tempo, al Sol dell’avvenire che (sintetizzando rapidamente) racconta in 78 minuti le origini delle Br di Reggio Emilia dando la parola ad alcuni protagonisti della vicenda, tutti ormai coi capelli bianchi: Alberto Franceschini (cofondatore delle Br assieme a Renato Curcio), Tonino Loris Paroli e Roberto Ognibene (due ex Br), Annibale Viappiani della Fiom e Paolo Rozzi, funzionario pubblico ed esponente del Pd locale. Tutti condivisero le radici comuniste, una genealogia partigiana, il mito della Resistenza tradita e da ricominciare, la frequentazione della Fgci, l’adesione alla Comune rivoluzionaria dell’”Appartamento” e la rottura col Pci troppo moderato. Giovani cresciuti negli anni Sessanta. Le loro strade si separano quando i primi tre scelgono la lotta armata e fondano le Br unendosi ai gruppi milanesi e del nordest, mentre Viappiani e Rozzi restano nella legalità e tornano nel partito. Per raccontare questa storia Pannone sceglie un approccio empatico, una messa in scena “calda”. Rimette insieme i vecchi compagni, li fa pranzare nella trattoria dove furono fondate le Br, li segue nei vecchi luoghi condivisi della politica, ne ascolta la memoria e ricostruisce frequentazioni, speranze e rabbie.

Ecco dunque gli ex brigatisti e rivoluzionari dal volto umano, ingentiliti dall’età, privi ormai di qualsiasi identità militare, liberati dalla psicosi dell’ideologia e della violenza. Il loro ritratto sta a quello di un terrorista come un leone disneyano sta a una belva in carne e ossa. Sono sessantenni pacifici, alcuni con decenni di carcere alle spalle. Il film è “la loro versione”, senza verità dirompenti o scoop da riscrivere i libri di storia ma con loro al centro che portano una testimonianza storico-esistenziale, il come eravamo e perché lo diventammo dei brigatisti di Reggio Emilia. Il Sol dell’avvenire ha già raccolto una valanga di critiche, quasi tutte ottime (qui l’elenco), e non è il caso di aggiungerne un’altra fuori tempo massimo. Senza dubbio assomiglia a certi documentari argentini dedicati alla generazione della lotta armata contro la dittatura (Los Perros, Gaviotas blindadas), ai desaparecidos del Cono Sud. Ma quelli, gli argentini, erano i buoni contro il male: gioca facile raccontarli in modo empatico, nessuno si offende. Mentre per le Br, gli italiani, le cose non stanno esattamente così.

Perché la censura? Il dibattito è aperto
È forse per questo motivo che a caldo, quando a luci accese inizia il dibattito dell’Apollo 11, un lucido ed elegantissimo Carlo Lizzani prova a spiegare quali possono essere stati i motivi di una censura ovviamente inaccettabile. Forse una “saturazione di testimonianze brigatiste”, forse un sentimento di insofferenza – analizza il regista – per i “brigatisti che se la spassano e scrivono libri”. Forse, ed è qui l’avvertimento maggiore, un “pericoloso processo di identificazione” che il film rischia di provocare. Ci prova, Lizzani, a impostare il dibattito sulla censura e sul cinema. E ci prova anche Daniele Luchetti, rievocando gli ostacoli che incontrò il suo Portaborse nei primi anni Novanta. Anche Visalberghi li segue, e parla di “un regime strisciante che sta rendendo impossibile un certo tipo di documentarismo (…) riducendo alla canna del gas qualunque idea indipendente”. Dopo l’”editto Bondi”, denuncia Visalberghi, l’Istituto Luce e Rai3 sono “spariti come produttori e distributori”.

Ma la serata è tosta, e i dibattiti cento in uno. Ci pensa un arrabbiatissimo Fasanella ad aprire la porta maestra della politica e della storiografia: le ragioni della censura subìta dal film – ne è convinto – stanno tutte lì, nel fatto “che in Italia non si può dire che il terrorismo di sinistra… era di sinistra”. Fasanella ci tiene a precisare che i parenti delle vittime del terrorismo non hanno avvertito l’oltraggio alla memoria denunciato da Bondi, e ricorda che la pellicola è stata proiettata anche nella sede torinese dell’Associazione italiana vittime del terrorismo. Dopodiché riprende il filo del discorso, e citando Giovanni Pellegrino, ex presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sulle stragi, va giù duro: dopo il sequestro Moro – afferma Fasanella – Pci e Dc strinsero un “patto del silenzio” per centellinare l’informazione storica, ridussero le Br a fenomeno criminale, ne censurarono l’identità politica per ridurlo a sola “follia”. Allora di quante censure si parla? Quella del ministro? Quella di un regime politico? Di una lettura storiografica?

Prende la parola Pannone e si arriva allo zenit: informa di avere radici socialiste, quindi “laiche”, ma di rimpiangere (nonostante abbia “appena” 46 anni) la politica culturale del Pci di Togliatti, che sapeva “accettare il diverso” mentre il panorama politico odierno il diverso lo spegne (gli intellettuali dissidenti del ‘56 si rivolteranno nella tomba?). Detto questo, ognuno si sente libero di dire la sua. La censura non interessa più a nessuno. Ma, soprattutto, passa l’impostazione di Fasanella: per capire le Br, bisogna parlare della sinistra, sviscerare quelle radici. Così la sala raccoglie il testimone dai brigatisti del film. E si entra nella Zona comunista. Si torna nelle memorie di famiglia. Riemerge l’ombra del Pci e la disputa sulle Br diventa dibattito sull’identità comunista. Tornano gli anni Settanta, i compagni che sbagliano, torna un secolo di storia. Lizzani, che fu gappista a Roma, ricorda il primo libro d’indottrinamento che gli diede Valentino Gerratana nel 1942: era Estremismo, malattia infantile del comunismo di Lenin. Come dire: il problema nel Pci lo conoscevano da un pezzo. Tant’è che Cecilia Mangini ne ha un’altra, di educazione: lei si avvicinò alla sinistra affascinata dal mito della rivoluzionaria e bombarola antizarista Vera Zasulič! Insomma, spiega Mangini, nelle radici della sinistra quella tradizione c’è, così come l’abuso di falsi miti e di brutte parole d’ordine. Compagni, abbiamo sbagliato tutti. Un ex anarchico prende la parola e ce l’ha con Lizzani (“mi scusi, ma io ho odiato Banditi a Milano!”) e soprattutto con Enrico Berlinguer, cui addebita tutti i mali dell’Italia. Allora tocca a Vita prendere il microfono per difendere l’ex segretario comunista (“se fosse ancora con noi, sarebbe un bene”). Ci sono più cose tra cielo e terra, Orazio….

Morucci e il replay delle Br
Dopo oltre due ore di silenzio e ascolto, curvo sulle spalle sulla sedia scomoda, arriva anche il suo turno. Gli offrono il microfono e Valerio Morucci non si tira indietro. La sala è tesa. La lezione dell’ex brigatista è rapida: “Un pezzo di storia del paese doveva già essere chiuso negli anni Settanta. (…) Abbiamo imbracciato le armi per riprendere la Resistenza, ma quella storia, la storia comunista, era già finita da un pezzo”. Lizzani lo ascolta in silenzio e sussurra: “perfetto”. La famiglia si è ricomposta, se non altro nella lettura critica? Si è trovata una versione condivisa dei fatti storici? Chi può dirlo...

È quasi mezzanotte. Quelli che sono rimasti, sfiniti dal caldo e dall’ora, cercano la chiosa. Allora tutti d’accordo: il film è bello ma deve accettare qualche critica. Raccontare i brigatisti a quel modo, mostrando la “casa comune” e le radici, ha comunque il suo perché. E tutti d’accordo, ovviamente, sull’opportunità che film come questo si possano fare e far vedere.

Sembra finita. Si può andare a casa. E invece no. Il giudice Priore chiede il microfono per dire la sua. Non sarà tenero. “Da questo film – esordisce - potrebbero nascere delle simpatie per le Br.” Gelo in sala, colpo di coda del dibattito. “L’immagine che si evince – rincara il magistrato – è minimizzante.” Per Priore i personaggi sono troppo bonari, sono dei veri e propri “bonaccioni”: “gli altri brigatisti erano ideologicamente e militarmente di ben altra statura”. Infine, la “conflittualità” tra Pci e Br non è messa bene in luce. Contrordine: la discussione ricomincia. E avviso ai naviganti: le ferite sono ancora aperte, più rosse che mai.