Il Brasile vuole esportare il suo programma di riduzione della povertà e a questo scopo ha creato Mundo sem Pobreza, il primo centro mondiale per sradicare la povertà. Questa ambiziosa iniziativa di cooperazione “Sur/Sur” (Sud del mondo per il Sud del mondo) consiste in una piattaforma web e in un vasto catalogo di informazioni in tre lingue, mirato allo scambio e alla formazione a distanza dei responsabili politici e degli operatori del settore dei paesi in via di sviluppo.

L’iniziativa, promossa dal Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo (Pnud) e dalla Banca Mondiale, è stata presentata a inizio 2014 in un evento internazionale di fronte a ministri, amministratori ed esperti di 70 paesi. Il governo brasiliano promuove già cooperazione internazionale in paesi dell’America Latina, Africa, Asia e Medio Oriente attraverso l’assistenza tecnica a programmi di riduzione della povertà. Molti paesi in via di sviluppo si ispirano all’esempio del Brasile.

Tuttavia – come avverte il ministro dello Sviluppo Sociale brasiliano Tereza Campello – “nessuna politica può essere attuata o copiata in quanto tale, perché sono diverse le realtà di ogni ambiente”. In effetti i successi dei governi guidati dal Pt (Partido dos Trabalhadores) su questo terreno sono notevoli. Il Brasile è l’unica potenza emergente del gruppo Brics (Russia, India, Cina e Sudafrica, oltre al Brasile) che è riuscita a ridurre la disuguaglianza nell’ultimo decennio: la Banca Mondiale riporta che la disuguaglianza in Brasile, in base al coefficiente Gini che ne misura gli standard, è diminuita di 5,08 punti, mentre in Russia e in Cina è aumentata di 2,62 e 2,86 punti. Nel 2003, quando Luiz Inácio “Lula” da Silva iniziò a governare il Brasile, per fronteggiare il flagello della povertà creò il programma “Borsa Famiglia”, che alla fine del suo mandato, nel 2010, ha raggiunto 13 milioni di famiglie, in pratica 50 milioni di persone.

Il programma prevede sussidi ai capofamiglia senza lavoro o con basso reddito, e richiede la frequenza scolastica e l’assistenza sanitaria dei figli. Grazie a questo e ad altri interventi 28 milioni di brasiliani sono usciti dalla povertà durante la gestione di Lula e 36 milioni sono saliti nella scala sociale, verso la classe media, che oggi rappresenta il 52 per cento della popolazione. Un record per un paese che nell’America del Sud si è sempre distinto per gli alti livelli di disuguaglianza tra gli abitanti. Nel 2011 Dilma Roussef è succeduta a Lula vincendo le elezioni con la promessa di eliminare la povertà entro la fine del suo mandato (ottobre 2014). La sua prima misura di governo è stata il lancio del programma “Brasil sem miseria”, che si propone di fare uscire 16,2 milioni di cittadini (l’8,5 per cento della popolazione) dall’estrema povertà, che riguarda coloro che hanno un reddito pro capite inferiore a 70 reais mensili (42,34 dollari). Il nuovo programma perfeziona il precedente, proponendosi la ricerca “attiva” dei beneficiari tra i gruppi esclusi dal sistema e non raggiunti dalla “Borsa Famiglia”, isolati dalle politiche pubbliche, dai servizi e dall’informazione.

Oltre a fornire sussidi Brasil sem miseria agisce su altre due linee di obiettivi: accesso ai servizi pubblici (educazione, salute, acqua, elettricità, ecc) e inclusione nel mercato del lavoro. All’uopo sono state costruite “mappe della povertà” e delle “opportunità” nei territori ed è stato inaugurato un ampio programma di formazione professionale e inclusione lavorativa per 1,7 milioni di abitanti delle città. Altre linee sono dedicate alle famiglie contadine povere, a cui viene agevolato l’accesso alle risorse finanziarie, all’assistenza tecnica, al microcredito e alla commercializzazione dei loro prodotti. Gran parte degli sforzi sono indirizzati verso il nordest, dove risiede il 59 per cento dei cittadini in condizione di povertà estrema, soprattutto di discendenza africana. In effetti il Brasile senza miseria non è stato soltanto uno slogan: per 22 milioni di persone – cittadini brasiliani a pieno titolo – è diventato realtà, e questa è una delle ragioni che fanno pensare a una riconferma di Dilma Roussef alla guida del paese.

In effetti sono molti gli indicatori che dimostrano il successo di queste politiche di inclusione sociale. La mortalità infantile per malnutrizione si è ridotta del 58 per cento, l’assistenza sanitaria prenatale è aumentata del 40, il tasso di fertilità è sceso del 20 nella media nazionale, e del 30 tra le famiglie più povere, l’aspettativa di vita è aumentata da 70,7 a 74,1 anni. Per raggiungere 23 milioni di cittadini esclusi del sistema, e del tutto privi di assistenza, sono stati creati programmi sanitari speciali che hanno richiesto anche l’importazione di medici (ad esempio da Cuba). Nell’ultimo decennio è diminuito anche l’analfabetismo (dal 12,3 all’8,4 per cento, nel Nordest dal 24,2 al 16,9) ed è cresciuto il tasso di istruzione a tutti i livelli (la scuola elementare copre oggi il 98,3 per cento della popolazione). Soprattutto, il Brasile è diventato un paese meno ingiusto dal punto di vista sociale. Tra il 2002 e il 2012 il reddito del 20 per cento più povero della popolazione brasiliana è cresciuto del 6,4 per cento, mentre quello del 20 più ricco non è andato oltre il 2,5. In parallelo il valore del salario minimo è aumentato del 72 per cento tra il 2002 e il 2013.

Per rendere possibile tutto ciò il Brasile ha destinato alla spesa pubblica il 40,4 per cento del suo Pil, una delle cifre più alte dell’America Latina (la media è del 34,7), anche se inferiore alla media nella zona euro (50 per cento nel 2012). Nel subcontinente fa di più solo l’Argentina (44,5 per cento) che, durante i governi di Nestor e Cristina Kirchner, ha promosso analoghi programmi di inclusione sociale (il principale è l’Assegnazione Universale per Figlio-Auh), mirati però a una popolazione meno numerosa. La voce principale della spesa riguarda infatti i sussidi per servizi pubblici (gas, energia, trasporto) a carattere universale intesi a far ripartire l’economia dopo la crisi 2002.

Oggi il governo cerca di tornare sui suoi passi e di limitare la spesa. L’altro primato dei governi a guida Pt è la creazione di impiego. Negli otto anni di Lula sono stati creati 17 milioni di posti di lavoro regolare e lo stipendio minimo è cresciuto del 66 per cento. Dilma ha celebrato di recente la creazione di 4,8 milioni di posti a partire dall’anno in cui è stata eletta. Un risultato magro, però, se confrontato al periodo precedente. Ormai sono finiti gli anni della grande espansione dell’economia e dell’occupazione. Mentre si registrano preoccupanti perdite di posti lavoro nell’industria manifatturiera e nell’agricoltura, lo stesso governo ha dovuto riconoscere che il 2013 è stato il peggiore anno del decennio in termini di creazione di lavoro, anche se la disoccupazione è continuata a calare: dal 5,7 al 5,1 per cento tra marzo 2013 e marzo 2014, uno dei tassi più bassi del mondo (era del 13 per cento nel 2003, anno dell’elezione di Lula).

All’origine dei problemi vi è un ciclo economico difficile che riguarda l’insieme dei paesi emergenti. Ma, secondo gli analisti, vi è anche il calo della popolazione economicamente attiva (-0,6 per cento nel periodo), dovuto al fatto che sempre più giovani preferiscono dedicare più tempo agli studi. Senza dubbio un altro risultato positivo delle politiche sociali. I grandi successi della politica brasiliana in termini di occupazione hanno però alcune crepe, a cominciare dalla bassa qualità del lavoro e dalla scarsa qualificazione. L’investimento del governo in educazione e formazione professionale non riesce ancora a superare questo divario. Occorre tempo.

Il governo ha deciso intanto di reclutare 400 mila tecnici qualificati e professionisti all’estero. Oltre ai medici già menzionati, si tratta di tecnici e ingegneri per l’industria mineraria, il petrolio e le tecnologie dell’informazione. Secondo le statistiche ufficiali il 23,4 per cento dei lavoratori privati non ha regolare contratto e il 19,3 lavora con forme di autoimpiego in genere molto precarie. L’economia informale rappresenta circa il 30 per cento delle attività produttive e in molti settori i salari sono bassi, talvolta inferiori ai 100 reais mensili. A ostacolare un vero salto di qualità dell’economia vi è anche il basso tasso di produttività del paese che, secondo la Confederazione nazionale dell’Industria (Cni), sarebbe superiore solo a quello dell’India tra i paesi a sviluppo similare.

La Cni calcola poi nell’1,1 per cento la crescita della produttività tra il 2001 e il 2012, mentre i salari nel settore sono aumentati del 169 per cento. La grande offerta di lavoro, unita alla precarietà contrattuale, è servita in questi anni ad alimentare un altissimo turnover, come ha messo in rilievo la centrale sindacale Centrale Unica dei Lavoratori (Cut), guidata dallo stesso Lula prima del suo ingresso in politica. “Se il Brasile non crea opportunità più stabili – spiega Sergio Nobre, segretario generale della Cut – non potremo confrontarci con le economie sviluppate”.