“Soddisfazione e non costrizione”. Con queste due semplici parole risponde alla nostra domanda sul Primo Maggio e sul senso del lavoro Fabrizio Barca, ex ministro, politico e studioso di economia, che ci tiene prima di tutto a spiegare la situazione duale che vive oggi il nostro paese. E la dualità non sta tanto (o non solo) nell’antica frattura tra Nord e Sud, ma anche tra due modelli d’impresa e di lavoro che convivono magari negli stessi territori, ma che sono cose completamente diverse. Un punto centrale, per Barca: tornare a occuparsi di organizzazione del lavoro.

Rassegna Barca, come si possono spiegare i due termini “soddisfazione” e “costrizione” e che valore ha oggi festeggiare il Primo Maggio?

Barca Possiamo dire che mai come oggi in Italia è evidente la biforcazione tra due modi di fare profitto, o tra due modi di essere competitivi. E questa biforcazione è evidente se si ricomincia a guardare da vicino l’organizzazione del lavoro realmente praticata. C’è un modo costrittivo che dà per scontato che i lavoratori debbano eseguire solamente le mansioni stabilite nei contratti. È un modo di fare impresa basato su un modello vecchio, su un rapporto con i lavoratori fatto di bassi salari, rapporti di breve termine, sfruttamento fino in fondo dello squilibrio di potere negoziale. È un modello diffuso in pezzi dell’industria manifatturiera, ma anche nel nuovo terziario di massa e nel lavoro intellettuale. Poi c’è un altro modello basato sul rapporto collaborativo sostanziale, che prevede un grado significativo di autonomia del lavoratore essendo non tutto lavoro costretto. E in questo caso il lavoratore tende a dare più del minimo perché si sente partecipe delle decisioni sull’utilizzo del capitale, materiale o immateriale. In questo modello l’impresa si fa carico anche dei tempi di lavoro, rispettando soprattutto quelli delle donne, delle esigenze di vita dei lavoratori.

Rassegna Ma quando si parla di sentirsi partecipi delle decisioni, pensi all’azionariato dei lavoratori o al modello di cogestione alla tedesca?

Barca In questo senso, per il ragionamento che stiamo facendo, non importa a quale modello ci si riferisce. Il punto che voglio sottolineare riguarda piuttosto la capacità dei lavoratori di influenzare le decisioni delle imprese. Si può pensare ad un modello partecipativo perfino in un call center. Non è detto che devi stare negli organi, ma ci devono essere strutture di ascolto e dialogo che possano permettere appunto alle aziende di raccogliere e tenere conto delle proposte dei lavoratori sulle scelte e sull’organizzazione del lavoro. Penso a un modello collaborativo sostanziale. Si devono ripensare i salari e i regimi di orario e si possono immaginare perfino forme di volontariato all’esterno delle fabbriche e degli uffici come sta già avvenendo in alcune esperienze. In uno degli 11 progetti di Luoghi Idea(li) abbiamo deciso di studiare a fondo queste forme di organizzazione in un gruppo di imprese del Piemonte (si veda http://www.fabriziobarca.it/blog/wp-content/uploads/2014/03/Schede-Luoghi.pdf, ndr).

Rassegna Insomma, a parte i modelli di partecipazione descritti dalla sociologia, siamo in presenza di un paese diversificato, a più livelli?

Barca Sì, ripeto, sono due mondi quasi opposti che continuano a marciare insieme. Ma sotto la coltre del primo modello, quello costrittivo, sembra proprio che si stiano sviluppando esperienze nuove. Tra l’altro i semi di tutto questo erano stati gettati negli anni ’70, durante i quali si sono sperimentate strade di collaborazione. Poi, negli anni ’80 ha cominciato a prevalere e a farla da padrone il modello costrittivo, o dello “sfrutta e fuggi” che oggi colpisce in modo comune una parte del lavoro dipendente e quello delle partite Iva, soprattutto quelle che chiamiamo “monocommittenti”. Eppure già nelle intuizioni di Bruno Trentin c’era il ragionamento sulla capacità del lavoratore di essere collaborativo e quindi saper aumentare la propria “impiegabilità” (e ovviamente anche il proprio salario). E sarebbe interessante se oggi il sindacato tornasse a impartire lezioni di collaborazione in questo senso. Si è scelto invece il modello costrittivo che ci ha portato in un vero e proprio circolo vizioso, con meno incentivi a innovare e un blocco vero e proprio della produttività: su questo vorrei precisare che la produttività è bloccata dalla metà degli anni ’90 e questo blocco non credo sia dovuto – come si è detto in tutti questi anni – solo ai costi esterni, ma proprio al fatto di aver trascurato la qualità dell’organizzazione del lavoro.

Rassegna La Cgil, soprattutto con il suo Piano del lavoro, mette l’accento sul problema della creazione di lavoro in un momento di disoccupazione dilagante. Come si legano questi discorsi sul ripensamento dell’organizzazione del lavoro che c’è, con la creazione di nuovi posti di lavoro?

Barca Prima di tutto è necessario uscire dall’ossessione regolativa di questi anni. Si è ritenuto che solo ripensando le regole sarebbe stato possibile creare lavoro. È ora di piantarla. Sono venticinque anni che ci concentriamo solo sulle regole in tutti i settori. Ora dobbiamo appunto ricominciare a occuparci di comportamenti e non di regole. E quindi di organizzazione del lavoro che determina produttività, competitività, domanda e quindi più lavoro. Per quanto riguarda le proposte della Cgil e il suo Piano del lavoro, devo premettere che io non credo si possa affidare allo Stato la creazione di posti di lavoro. Lo Stato può creare le condizioni perché ciò avvenga. E di queste condizioni si occupano proposte importanti del Piano del lavoro della Cgil, proposte rilanciate dal segretario generale Susanna Camusso. La manutenzione ordinaria del patrimonio, del territorio, degli immobili e delle scuole, le bonifiche, gli interventi in campo idrogeologico, la sicurezza degli edifici. Intervenire in questi campi avrebbe prima di tutto effetti forti sullo sviluppo e sulle attività imprenditoriali dal lato dell’offerta, creando condizioni di certezza per gli investimenti privati. Avrebbe anche, è importante in questo momento, effetti di contrasto del ciclo economico negativo. Poi c’è tutta l’area del welfare, dove si possono sviluppare vere e proprie filiere: gli anziani, la scuola, la cura delle persone, l’infanzia. Sono settori su cui è necessario investire per varie e importanti ragioni. Si tratta infatti di presidiare la vita delle famiglie, dare loro fiato. E poi è importante perché sono investimenti sulla conoscenza, la conoscenza dei giovani, ma anche degli anziani che come dice lo Spi Cgil, sono una fonte di conoscenza ed esperienza. Scuola e cura degli anziani sono anche un driver di tecnologia: c’è bisogno di connessioni potenti, che possano per esempio sostituire i ricoveri ospedalieri con la cura a casa con tecnologie avanzate. Siamo un paese fatto anche di una miriade di piccoli borghi: anche per questo la connessione è fondamentale. E invece tra il 2008 e il 2012 gli investimenti pubblici in Italia sono caduti del 22%, mentre in Germania sono cresciuti nello stesso periodo dell’1,2%. E tra il 2008 e il 2011 le spese per l’istruzione sono crollate in Italia del 7%, mentre in Germania sono cresciute dell’8%.

Rassegna L’ultima domanda è sul sindacato e sul suo ruolo. Oggi si parla molto di concertazione e di fine di un’epoca. Come vedi la questione?

Barca Il ruolo del sindacato è decisivo nel campo (che è suo proprio) dell’organizzazione del lavoro. Il sindacato è l’organizzazione del lavoro salariato che nel capitalismo ha un rapporto con le imprese. Il sindacato, da questo punto di vista, è indispensabile al capitalismo. Se non ci fosse stato il sindacato, il capitalismo sarebbe ancora fermo a centocinquant’anni fa. Solo sfruttamento delle persone. Mentre non avremmo visto, ce lo ricordava Paolo Sylos Labini, l’innovazione tecnologica impetuosa. Il sindacato ha un ruolo fondamentale oggi nella battaglia per lo sviluppo del modello collaborativo. Ho invece molti dubbi sull’efficacia del modello concertativo che è stato dominante in questi anni. Direi anche di più: il modello concertativo ha allontanato il sindacato dalla sua missione principale, che è appunto quella della tutela del lavoro e del controllo dell’organizzazione del lavoro, laddove il lavoro stesso si realizza. Attenzione, non mi si equivochi. È importante, è parte costitutiva del ruolo del sindacato avanzare proposte generali, come quella del Piano del lavoro, che esprimono i bisogni e le proposte del lavoro sull’azione pubblica. Ma queste proposte non è opportuno, a mio parere, che siano avanzate in una logica di scambio tra scelte macroeconomiche e salario e qualità del lavoro. Il sindacato deve presentare le sue piattaforme e deve giudicare le scelte del governo scendendo in piazza ogni volta che non si è d’accordo. Ma il ruolo del sindacato non deve essere pensato appunto come scambio tra politiche e condizioni del lavoro.