Sono passati quasi sei mesi dalla firma dell’accordo del 3 dicembre 2014 al Ministero dello Sviluppo economico sulla vertenza Ast (Acciai speciali Terni), accordo arrivato dopo una lunga e complicata lotta, fatta di scioperi a oltranza, cortei, blocchi stradali e manganellate subite dai lavoratori. Sei mesi, un tempo assolutamente congruo per fare un primo bilancio sul rispetto degli impegni messi nero su bianco, con la firma del governo in calce, nelle sale del dicastero di Via Molise.

E proprio questo è stato lo scopo
dell’attivo dei delegati della siderurgia di Terni, che si è svolto mercoledì 20 maggio, con la presenza dei segretari nazionali di Fiom, Fim, Uilm, Fismic e Ugl, che si sono confrontati con la Rsu di Ast, ma anche con i lavoratori delle aziende dell’indotto.

“Quando abbiamo firmato l’accordo a dicembre, dopo una vertenza complicata, nella quale siamo riusciti a modificare la posizione della multinazionale, abbiamo detto da subito che da quel giorno sarebbe stato necessario vigilare affinché gli impegni presi sulla carta venissero tradotti in atti concreti, nella quotidianità della fabbrica”, afferma Rosario Rappa, segretario nazionale della Fiom Cgil. Ma il bilancio che si può fare ad oggi non è soddisfacente: “Prevalgono gli elementi di criticità – continua Rappa – primo fra tutti quello della mancanza di corrette e trasparenti relazioni sindacali”.

“L’azienda incontra tutti tranne che le organizzazioni sindacali”, spiega Claudio Cipolla, segretario generale della Fiom Cgil ternana. “E questo non è più sostenibile, perché le questioni sul tavolo sono moltissime, dal nodo degli appalti, all’organizzazione del lavoro, fino ai temi dell’ambiente, della salute e della sicurezza. E su tutto questo c’è grande bisogno di fare chiarezza”.

Anche all’interno della fabbrica regnano la confusione e l’incertezza. Lo conferma la voce dei rappresentanti della Rsu: “Da due mesi a questa parte denunciamo sistematicamente una serie di problemi, anche per la sicurezza dei lavoratori, che si sono generati con la riorganizzazione unilaterale voluta dall’azienda e la forte riduzione degli organici – dicono i rappresentanti dei lavoratori di viale Brin – ma al di là di generici impegni presi a voce dal management, non vediamo una reale volontà di collaborare e l’impressione è che non si punti davvero ad un rilancio delle produzioni per raggiungere l’obiettivo del milione di tonnellate di fuso previsto nell’accordo del 3 dicembre”.

Intanto, l’amministratore delegato di Ast, Lucia Morselli, non perde occasione per dire che il progetto “procede nel migliore dei modi”, ma questo si scontra con i tanti segnali che sindacati e lavoratori percepiscono, pur in assenza di informazioni dirette.

“Oggi siamo qui con i delegati proprio per mettere in fila tutte le criticità che sono emerse rispetto a quanto previsto dall’accordo – spiega ancora Rosario Rappa – e questo ci servirà a ‘presentare il conto’ nel tavolo ministeriale che si dovrà tenere a giugno, perché non è più rinviabile una verifica dell’accordo, del quale, ricordiamo, il governo si è fatto garante”.

Ma al di là del rispetto, doveroso, di un’intesa che è stata approvata attraverso il voto da oltre l’80% dei lavoratori di Ast, c’è una questione più generale che i sindacati continuano a porre con forza al governo: esiste una politica industriale nazionale per la salvaguardia di settori strategici dell’industria manifatturiera italiana? Perché sullo sfondo della vicenda Ast resta la convinzione, nonostante il management italiano continui a negarlo, che Thyssen sia stata costretta dall’antitrust europea a riprendere Ast, ma che in realtà non sia interessata per il futuro a restare nel business degli acciai speciali, come dichiarato peraltro più volte dalla stessa casa madre tedesca. E allora l’interrogativo è ancora più stringente: se Thyssen tra qualche anno dovesse nuovamente tirarsi fuori, che ne sarà della più importante produzione italiana di acciai speciali e delle migliaia di lavoratori diretti e indiretti che in essa sono impiegati?