L’11 dicembre 2018 l’attentato nella zona del Christkindelsmärik, lo storico mercatino natalizio vicino alla cattedrale di Strasburgo; tre giorni più tardi, dopo aver lottato fino all’ultimo respiro, la morte di Antonio Megalizzi, raggiunto da uno dei colpi di pistola sparati dall’attentatore, Chérif Chekatt. Entrambi 29 anni, vittima e carnefice. Una tragedia che improvvisamente ci ha fatto conoscere un’altra storia, e con essa un’altra generazione, fatta di ragazzi e ragazze impegnati a costruire una casa comune per tutti noi.

A raccontarla è un libro appena pubblicato da Solferino, Il sogno di Antonio. Storia di un ragazzo europeo (pp.186, 18 euro), scritto da Paolo Borrometi, presidente di Articolo 21 e vicedirettore dell’agenzia di stampa Agi, già autore per lo stesso editore di Un morto ogni tanto (2018), il resoconto della minaccia nei suoi confronti intercettata telefonicamente, che lo costringe a vivere sotto scorta ma non arresta la sua denuncia degli intrecci tra mafia e politica. Anche per questo il libro di Borrometi su Megalizzi acquista maggior valore, lasciando intendere al lettore la volontà di rendere ancor più saldo un legame tra esistenze dedicate a un identico impegno, a un obiettivo condiviso, agli stessi desideri.

 “Antonio è stato un ragazzo fatto di ideali e di sogni”, sono le parole di Borrometi per spiegare la scelta del titolo, “ma i suoi erano sogni concreti, costruiti giorno dopo giorno dall’attività continua, da un incessante lavoro quotidiano”. Per questo si trovava a Strasburgo, per inseguire uno dei suoi sogni più ricorrenti: contribuire attraverso un’analisi critica e senza sconti alla costituzione di un’altra Europa, un’Europa vera, che recuperasse le teorie nitidamente espresse nel Manifesto di Ventotene, in modo da offrire un riferimento geopolitico a un mondo sempre più in disordine, troppo spesso teatro di ingiustizie e diseguaglianze nei confronti dei più deboli.

Nei continui viaggi a Strasburgo Antonio riusciva a mescolare le sue passioni più grandi, l’Europa, per l’appunto, e il giornalismo. Un giornalismo fatto di cronaca e partecipazione, di spirito civile, e che tra i suoi strumenti di diffusione prediligeva quello della radio, come la copertina del libro evidenzia mostrando una foto con il viso (sempre) sorridente del protagonista, racchiuso in un paio di cuffie pronte all’uso, l’immancabile cartellino da reporter che scivola sul petto, vicino al cuore.

“Ho conosciuto la sua propensione radiofonica grazie a “RadUni”, l’Associazione operatori radiofonici universitari, con cui Antonio Megalizzi lavorava per il progetto Europhonica”, è il commento del direttore di Radio3 Rai Marino Sinibaldi. “Poi, dopo la sua morte, ho avuto modo di incontrare Luana, la donna della sua breve vita, con la quale stava costruendo non soltanto un percorso d’amore, ma di crescita professionale: con lei aveva scoperto l’importanza della politica europea, fuori dai nostri confini. Con lei voleva formare, ben presto, una nuova famiglia”.

Il libro, arricchito da una prefazione dell’attuale presidente del Parlamento europeo David Sassoli, contiene inoltre alcuni degli scritti di Antonio Megalizzi, che ci restituiscono l’essenza di un’anima leggera, capace di guardare in profondità senza retorica. Eccone un esempio, una nota personale sulla Brexit:

Quando sento parlare di Brexit mi si gela il sangue. Forse è anche il neologismo in sé a non starmi simpatico: è un termine grigio, male assortito. Stona proprio con le nostre vite, le nostre esperienze. Ha, in una mattinata, capovolto come un calzino la mia vita passata. Ho pensato ad un pezzo d’Europa che se ne andava, un po’ come se ad abbandonarmi fosse un arto del mio corpo, o un amico di vecchia data, che se n’è andato per una cazzata. Perché altri amici gli hanno raccontato cose non vere di me, nell’interesse di farci litigare. Amici stronzi che ora sghignazzano e si crogiolano nel fango come i maiali di Orwell, quelli che prima volevano guidare la rivoluzione e poi si sono trovati a sedarla da padroni.

Che idioti. A volte me li immagino saltellare come la protagonista della “Ballata dell’amore cieco” di Fabrizio De André, ricordi? Mi viene in mente questa donna, avvenente ma anche altezzosa, che chiede al suo corteggiatore di fare l’impossibile per conquistarla: prima gli fa uccidere la madre, poi gli chiede di tagliarsi le vene; infine di ammazzarsi. E lui lo fa. Finendo per morire, con la consapevolezza di chi muore col sorriso, di chi muore felice perché ha dato un senso alla propria esistenza. Al contrario di lei, che dopo l’iniziale ubriacatura data dalla felicità dell’avere un uomo che per il suo amore si era pure ammazzato, ha finito per rammaricarsi per non aver ottenuto nulla di concreto dalla propria vanità: “non il suo amore, non il suo bene, ma solo il sangue secco delle sue vene”.

Antonio Megalizzi, giornalista. Un riconoscimento arrivato troppo tardi.