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E’ sembrata quasi la conferma della tesi che gli operai conquistano le prime pagine dei giornali solo quando sono protagonisti di episodi clamorosi, qualche volta restando ammazzati mentre lavorano altre volte protestando, nel modo che non ti aspetti, per il lavoro perduto o messo in pericolo; o magari – come in questo caso – quando una sentenza esemplare ribalta l’attesa di un giudizio imbarazzato e si incarica, invece, di individuare le colpe e punire i colpevoli al di là di ogni ragionevole dubbio.
A Perugia, al festival internazionale del giornalismo, la notizia della dura condanna dei manager della ThyssenKrupp per la strage di quattro anni fa è arrivata nelle stesse ore in cui si discuteva delle nuove frontiere dell’informazione, del ruolo a venire dei giornalisti di fronte alla disintermediazione prodotta dal web, delle strategie necessarie per offrire qualità alla comunicazione, riportando sulle prime pagine dei giornali e nelle aperture dei notiziari televisivi una gerarchia delle notizie più aderente ai fatti rispetto a quella strampalata e tuttavia straripante dei fattoidi (secondo la definizione braudilliardiana di Edmondo Berselli).
Ne hanno tratto spunto per le loro riflessioni (in un panel sulle ragioni dell’assenza delle vite operaie nell’informazione mainstream) Rinaldo Gianola e Corrado Formigli, sollecitati dai redattori di Ribalta, una trasmissione di Radio Popolare Roma, e accompagnati dai due giovanissimi ideatori della pagina facebook dell’isola dei cassintegrati.
Gli operai – si è convenuto - bucano lo schermo oppure riempiono le cronache solo per le situazioni estreme che li riguardano; quando cessano d’essere normali e diventano esemplari: in sostanza, quando incrociano qualche segmento della logica della comunicazione di oggi e diventano “complici” involontari di quella ricerca inesausta di sensazionalismo, che li ammette di tanto in tanto – riconoscendoli attori e protagonisti - all’interno del sistema amorale e agnostico del reality. Non sempre è deprecabile, talvolta può essere addirittura provvidenziale; è certamente sempre molto discutibile.
A una trovata da reality, per esempio, ha spiegato Formigli si deve l’esplosione in tv della vicenda della ventina di operai di Termini Imerese che si sono ribellati alla liquidazione della loro piccola fabbrica, trascinata nel dramma, al pari di tante altre di quel territorio, dalla decisione della Fiat di smobilitare l’azienda guida da un giorno all’altro. Le loro ragioni sono diventate evidenti quando essi hanno trovato la maniera di raccontarsi dal palcoscenico di un tetto dello stabilimento da cancellare. E più precisamente – ha sottolineato il giornalista di Anno Zero – il big bang c’è stato quando la moglie di uno degli operai ha catturato la telecamera cominciando a parlare con il marito attraverso il cellulare, e ha fatto così precipitare nel discorso televisivo una tranche de vie grondante sentimenti, permettendo ai telespettatori di buttare l’occhio nelle loro faccende private e di intuire in quelle – protetti da uno schermo - una verità più vicina di quanto fino a quel punto avessero sospettato, eppure dall’intimità così simile a quella impudica delle stanze dei grandi fratelli.
La spettacolarizzazione, dunque, è la via che porta alla visibilità; ma non è detto che cambi le cose; i riflettori inondano la scena, ma troppo spesso finiscono con l’incendiare i dettagli, portando con sé il rischio di coprire i fatti con una velatura di inautentico, un cerone che copre o calca le rughe e trasforma i volti in maschere che, secondo ruolo e tradizione, raccontano un carattere (qualche volta una caricatura) più che una vita.
Il richiamo di Rinaldo Gianola a una informazione senza luci di scena, scritta in maniera da concedere a chi racconta il beneficio di quell’attimo asincronico tra il racconto e chi o ciò che si racconta utile a cercare un significato meno evidente e ad arrivare a una conclusione meno scontata, è parso perciò il paragrafo della dichiarazione programmatica di un altro giornalismo (di cui pure a Perugia in molti hanno parlato) che qualcuno scommette prossimo a finire nel guardaroba degli strumenti desueti, a testimonianza di un’altra epoca e di altre ambizioni. È un punto che riguarda tutti, non solo gli operai. E prima di tutto riguarda i giornalisti, la loro responsabilità; quella che i giudici a volte sanno prendersi, raffreddando le emozioni per arrivare a individuare – come dovremmo fare anche noi in ogni nostro pezzo – la connessione che lega le cause e gli effetti, e cioè la trama veritiera dei fatti.