Waad Al-Kateab ha 26 anni e studia marketing all’università di Aleppo, quando prende in mano per la prima volta la sua telecamera per filmare le proteste contro il regime di Assad, a cui prende parte. Nel 2016 i suoi video per Channel 4 News, intitolati “Inside Aleppo”, vincono un Emmy per la copertura delle notizie dell’ultim’ora. Sotto le bombe si innamora, si sposa, dà alla luce Sama, alla quale il film è dedicato. Un diario emozionante della guerra civile in Siria, che ha per protagoniste una madre e sua figlia. Così nasce il documentario “Alla mia piccola Sama”, che la giornalista firma insieme al regista Edward Watts. Presentato in anteprima a Milano, con il patrocinio di Amnesty International Italia, è distribuito in sala da Wanted Cinema. Ne abbiamo parlato con Simona Malagoli, della Wanted Cinema, che lo distribuisce in Italia

Com’è nato l’incontro con questo piccolo gioiello?

Il merito è della fondatrice di Wanted Cinema Anastasia Plazzotta, che è sempre alla ricerca di gioielli. È stata lei a scovarlo, Wanted si caratterizza proprio per la ricerca e la proposta sul mercato italiano di un cinema ricercato. “Alla mia piccola Sama”, nel titolo inglese “For Sama”, ci è stato proposto dalla venditrice internazionale, con una tale enfasi e un tale calore che Anastasia ne è stata catturata. Noi abbiamo già distribuito altri due titoli sull’argomento, sappiamo che è un tema difficile da presentare al pubblico italiano e per questo eravamo anche spaventati, ma Anastasia si è lasciata convincere. Da allora in poi è stato tutto un susseguirsi di splendide conferme di quella scelta.

Forse la forza di questo documentario è proprio la sua verità, nel senso letterale che ha questa parola. La regista sceglie di riprendere la sua vita sotto le bombe. Lo spettatore non vede quasi mai le immagini da “news”, gli scontri ad Aleppo, ma quello che gli viene offerto è un racconto in soggettiva della vita di Waad in quel periodo, da resistente, giornalista, moglie e madre.

Credo che sia questo il focus. Il documentario è stato criticato perché non è un racconto oggettivo della guerra, ma è proprio questa la sua vera forza. È il racconto di una mamma che nel 2012, da giovanissima studentessa ad Aleppo, comincia a filmare le prime rappresaglie. In un secondo momento diventa una reporter di guerra, che documenta ciò che vedono i suoi occhi, infine una protagonista in prima linea della guerra civile. Il punto di vista è sempre il suo personale, con tutto quello che vive in questi cinque anni, persino il suo matrimonio con uno dei medici che lei filmava come testimone della rivoluzione. E poi la sua scoperta di essere incinta, la gravidanza, il diventare mamma. Da questo momento in poi, il film si trasforma in un racconto a sua figlia, perché possa comprendere la scelta, sua e del padre della bambina, di rimanere con una creatura così piccola in un territorio martoriato dalla guerra.

Da neomamma questo film fa un certo effetto, ma credo che queste considerazioni potrà condividerle chiunque abbia un figlio e vedrà il documentario. Waal Al-Kateab si concentra per gran parte del documentario nel riprendere la sua bambina, il modo in cui la piccola Sama vive il suo primo anno di vita sotto le bombe, da rifugiata in un ospedale. E come lei tanti altri bambini. In questi anni, siamo stati abituati dalla cronaca a immagini come quelle del bambino con la maglietta rossa riverso sulla spiaggia, o quella del bambino che portava cucita in tasca la sua pagella. In questa storia i bambini li vediamo vivi, mentre agiscono in quel contesto di guerra da cui provengono.

Sì, a volte senza rendersi conto pienamente di quello che accade intorno a loro. Vivono l’orrore come se fosse la loro quotidianità. Spesso, infatti, il punto di vista scelto dalla regista è quello di lei come mamma, che osserva questi bambini costretti a subire un conflitto di cui non sono responsabili, ma del quale pagano le conseguenze. Molte mamme mi hanno detto di avere paura a vedere “For Sama” e chi poi lo ha visto lo ha definito un racconto straziante, che apre il cuore in due. Il film però è anche un inno alla vita, loro sono dei sopravvissuti. Il fatto che lei oggi possa andare in giro a raccontare questa storia insieme a suo marito e alle sue due figlie, la fa sentire una testimone fortunata, miracolata e per questo grata. Il film si apre veramente a un inno di speranza e di vita, che è proprio la vita di Sama. Il suo nome vuol dire cielo, speranza, ed è l’inno di una sopravvissuta.

La vita è il filo conduttore di tutto il documentario, lo sarà anche nel finale (che non sveliamo). La stessa Waad Al-Kateab ha scritto nelle note di regia: “ho capito che ero più affascinata dal catturare storie di vita e umanità, piuttosto che concentrarmi sulla morte e la distruzione.

Si, e lo ha fatto in un modo meraviglioso, tra il mostrare l’orrore, attraverso delle scene fortissime, e il filmare il modo in cui loro restano attaccati al territorio in cui desiderano proseguire la loro vita. Questo è, secondo me, il punto di forza di “For Sama”, perché di documentari sulla guerra ne sono stati fatti tantissimi ma la differenza, in questo caso, la fa il punto di vista di una mamma che spiega alla figlia perché restare, un punto di vista che non tutti, forse, possono comprendere.

A proposito di questo, Waad dice a Sama che vuole realizzare questo diario perché lei da grande possa capire le scelte dei suoi genitori. Tra le scene più strazianti c’è quella di un parto sotto le bombe. Una donna arriva in ospedale ferita, procedono a un cesareo d’urgenza. Lo spettatore vede il corpicino senza vita del bambino e prova un senso di disperazione. Poi, in pochi decisivi secondi, i medici riescono a rianimarlo. Se pensiamo a tutte le scene di guerra già viste e le confrontiamo con questa, la differenza sta nell’empatia. La maggior parte degli spettatori non sa cosa vuol dire vivere sotto le bombe, ma ha familiarità con il momento del parto.

Quella è una scena fortissima. Lo è anche quella della madre che vuole allattare il suo bambino morto. Ogni volta che rivedo il film mi colpisce, perché quella scena è l’essenza dell’incontro tra la vita e la morte. Noi occidentali abbiamo visto il conflitto attraverso i tg, ma queste sono scene a cui non siamo abituati e che ti riportano a una quotidianità che è la stessa vissuta da noi, ma in tutt’altra dimensione. Siamo abituati alla gioia del parto, ma in quella scena ne vediamo uno diverso, non sappiamo come andrà a finire, ci tiene appesi fino all’ultimo secondo. Io ho amato il film dalla prima visione e continuo ad emozionarmi ogni volta che lo rivedo.