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Da dove proviene la “malattia”, il lato oscuro che spinge l’italiano medio – ammesso che esista un concetto di italianità che ci tiene tutti insieme –, ad avere scarso senso civico e poco senso di responsabilità, nei momenti topici della nostra vita civile? Perché, nei confronti del potere, gli italiani hanno scelto nel corso dei secoli la strada dell’accondiscendenza, del consenso acritico, praticamente fino ai giorni nostri? Ermanno Rea ha pochi dubbi: “Penso che il fatto che la Chiesa ci abbia tenuto in pugno per tanti secoli, ha fatalmente condizionato la nostra identità di cittadini: noi italiani siamo, in un certo senso, tutti figli della Controriforma”.
Grande narratore napoletano con un passato da giornalista, autore di libri che meglio di altri hanno interpretato sotto forma di romanzo i nostri tempi, Rea ha scelto per sostenere questa tesi la forma di un nuovo e rigoroso saggio civile sulla natura degli italiani, o come dice lui di un “libro-sfogo”. La fabbrica dell’obbedienza (pubblicato prima dell’estate da Feltrinelli, ndr) nasce da un profondo senso di indignazione per le condizioni attuali del paese – spiega nella sua casa romana, ironia della sorte, a pochi metri dalle mura vaticane –, e raccoglie il desiderio di protesta nei confronti di una situazione insopportabile. Mi sono chiesto: perché l’italiano fa quello che nessun altro popolo in Europa farebbe? Perché manda al potere gente che inglesi, francesi, tedeschi non eleggerebbero mai?”.
Viviamo un momento difficile della nostra storia, ma l’atteggiamento che abbiamo nei confronti del potere politico e religioso rimane servile, opportunista. Ed è un tratto che si può scorgere, secondo lo scrittore, lungo il corso della nostra storia collettiva.
Dall’Ottocento unitario al fascismo, dal dopoguerra democristiano al trionfante berlusconismo, per citare solo alcuni degli avvenimenti degli ultimi due secoli di vicende patrie, abbiamo preferito abdicare dalla condizione di cittadino consapevole per indossare i panni del suddito perennemente consenziente nei confronti del potere, anche quando assume la faccia grottesca del Bunga-Bunga. “E dire – osserva – che a inventare il cittadino responsabile siamo stati noi! Accadde molti secoli fa, tra il Trecento e il Cinquecento, con l’Umanesimo e il Rinascimento. Fu una lunga stagione di gloria che durò non meno di 150 anni; poi lentamente furono spente le luci che erano state accese e tra roghi e altre forme di violenta repressione la Controriforma espulse dall’Italia l’homo novus appena plasmato sostituendolo con un suddito deresponsabilizzato, vera e propria maschera della sottomissione e della rinuncia a ogni forma di autonomia di pensiero”. Fu una stagione che divise l’Europa in due: da una parte i paesi che decisero di aprirsi alla riforma protestante, dall’altra quelli che, sotto l’impulso della Controriforma, rimasero ancorati alla sfera della Chiesa romana. Per l’Italia, gli effetti furono duraturi. Tali, secondo lo scrittore, da rappresentare “un filo conduttore convincente per spiegare in modo coerente e non frammentario fatti apparentemente diversi”.
L’eredità di quella fase storica ha finito per penetrare la pelle degli italiani: “Credo che il difetto principale dell’italiano sia nella disponibilità a dire di sì. L’accondiscendenza verso il potere, perfino l’infatuazione nei confronti di chi comanda. Non a caso, all’inizio del libro, cito Giordano Bruno, che mentre si incammina verso il rogo, viene invitato ancora una volta a ritrattare le sue tesi: come sappiamo, però, lui dirà ‘no’. Un esempio eminente contro una tendenza diffusa a piegare la testa. Il dato centrale rimane questo: la mancanza di responsabilità. Io credo che la ‘tragedia italiana’ sia legata a questa assenza, che poi si riflette nel deficit di legalità, nello scarso rispetto per gli altri. Non sono un protestante, ma come non riconoscere a un protestante la capacità autonoma di giudizio, il senso di responsabilità?”.
Il trucco secondo l’autore di Mistero napoletano, L'ultima lezione e La Dismissione, calato nell’inedito ruolo del polemista civile, è questo: “Io pecco, vado dal confessore e il confessore mi assolve. Attribuisce ai miei comportamenti, alle mie deroghe dalla legalità, un valore a sé. Il parroco alla fine ci dispensa sempre, e nello stesso tempo ci deresponsabilizza dagli atti che compiamo. Tutto questo ti porta a servire poco te stesso, e ad accodarti al parroco, al politico, affidando l’etica a un’entità esterna. La stessa coscienza diventa terra di conquista dell’autorità”.
Come spiegare allora, in una società in cui la Chiesa ha una forte presa, con tutto il corollario di divieti morali e l’ascesa al potere di una figura come Berlusconi, con tutte le sue deroghe dalla moralità comune? “Non c’è contraddizione: Berlusconi è un frutto della Controriforma e di santa romana Chiesa, uomo che propugna il principio di autorità tanto caro alle sfere cattoliche. Così come lo furono, in un certo senso, Mussolini e Craxi, privatamente lontani dai comandamenti, ma in sintonia con le gerarchie ecclesiastiche.
Dopo quattro secoli la fabbrica dell’obbedienza continua a produrre la sua merce pregiata: consenso illimitato verso ogni forma di potere, tanto meglio se dal cuore marcio, perché la Controriforma sa essere molto indulgente con se stessa e con i propri alleati e sostenitori”. Però abbiamo avuto anche momenti di riscatto significativi. “Non lo nego, c’è sempre chi non ci sta. Anche oggi vedo accanto al degrado generalizzato, un risveglio di coscienza civile; le donne, in particolare, stanno facendo cose egregie. Nella nostra storia c’è stato un relativo avanzamento, che però non ha portato a una coscienza comune. Il paese rimane diviso tra chi cerca il progresso e una parte che si è arroccata e lo respinge. Indovini da che parte sta Santa romana Chiesa?”.
Sotto la lente critica dello scrittore finiscono oltre al tardo Cinquecento, passaggi cruciali della nostra vicenda nazionale. “Reputo il nodo risorgimentale vincolante in riferimento al carattere degli italiani. Esso non costituì un momento di riscatto, ma anzi una iattura per il Sud, che pure aveva al momento dell’Unità una sua dignità economica e produttiva. Non furono risolti i problemi con la Chiesa e prevalsero tradizionalismo e arretratezza, con la scelta da parte del nuovo Stato unitario di appoggiare il latifondo e i poteri consolidati”. Ci furono però, successivamente, esperienze che potenzialmente espressero una spinta al cambiamento in un paese dominato da gerarchie e poteri conservatori. “Penso alla Resistenza a cui partecipai da ragazzo, e alla grande, generosa storia del Partito comunista italiano.
Dopo la guerra lo sforzo fu quello di unire per la prima volta l’azione delle élite culturale progressista ai bisogni profondi delle masse popolari. Il mio ricordo personale riguarda la città di Napoli: gli studenti, gli intellettuali allora scesero nei vicoli a portare la speranza, a cercare di stringere un accordo con l’uomo del popolo nel nome del cambiamento. Un fatto straordinario e rivoluzionario, allo stesso tempo.
Purtroppo il Pci non riuscì allora a svincolarsi dal legame con l’Unione Sovietica, ed è difficile dire cosa sarebbe accaduto se questo fosse avvenuto. Però quella è stata un’esperienza decisiva nell’avanzamento democratico del paese, e credo che la democrazia sia debitrice nei confronti dei comunisti italiani”.
Il tema del riscatto della città di Napoli e del Mezzogiorno ritorna nelle pagine della Fabbrica dell’obbedienza, ed è un tema conduttore di gran parte della narrativa dello scrittore. “È inutile continuare a vivere nella speranza di una catena di montaggio che non arriva mai e quando arriva non riesce ad essere lo strumento di modernizzazione di questa città. I progetti del passato sono tutti falliti; quindi io dico: perché il Mezzogiorno non trova una propria autonomia attraverso un progetto di economia alternativa?
Perché non mobilitare una serie di personalità e di energie che operano in questo campo, che hanno già partorito idee, perché non convocare degli stati generali al fine di delineare una proposta di conversione ecologica della società meridionale? Potrebbe essere un riscatto inatteso, dopo secoli di sottomissione. Del resto, quello che manca a Napoli è una speranza, e non c’è speranza senza progetto”. Alcuni segnali arrivano dalla politica. La Napoli immobile volta pagina?
“Io non voto a Napoli, ma virtualmente avrei scelto De Magistris. Perché? Personalmente non lo conosco, ma l’avrei votato per una ragione semplice: mi è apparso una persona non moderata”. Bisogna forse temere le idee moderate? “Penso che i moderati oggi siano quanto di peggio l’Italia vada proponendo. L’idea di moderazione è intesa come compromesso a tutti i costi.
A Napoli lo stesso Bassolino, pur avendo avuto un esordio brillante, si fece catturare dal moderatismo: per accordarsi con questo e con quello alla fine ha ‘sciupato’ una prospettiva politica di cambiamento. La città, al contrario, ha bisogno di un po’ di giacobinismo: ci siamo lasciati andare, ci siamo rifugiati in un presunto spirito di tolleranza. Ma alla fine, per seguire questa strada, le parole perdono di significato, niente significa più niente”. De Magistris ce la farà? “Me lo auguro, la città ne ha bisogno. Però non metto la mano sul fuoco per nessuno, né voglio avere il mito di un capo: staremo a vedere”.