Troppo spesso, riteniamo scontati alcuni concetti e non ci sforziamo di declinarli, perché considerati connaturati alla nostra formazione, al contesto e alla nostra educazione. Sono i codici che ci permettono di semplificare la discussione con gli altri e di rendere più facile anche la codifica e la lettura dei fenomeni che accadono. Così concetti come libertà, giustizia, pari opportunità, autonomia, solitudine (e moltissimi altri) restano evanescenti come dei fantasmi. Declinati da connotazioni e riferimenti etici sempre più condizionati dalla percezione individuale e contingente, invece che riempirsi di significati condivisi collettivamente.

Non ho la volontà e neppure la capacità di compilare un auto-compiaciuto trattatello di etica. Invece, voglio condividere una reale e tangibile preoccupazione sulla fase in cui versa la dialettica politica e sociale nel nostro territorio. Sono di questi giorni due fattispecie che vanno analizzate e dalle quali deve partire una riflessione - che non può essere solo di denuncia - che dovrebbe essere il fondamento della dialettica politica e sociale della nostra città. La crisi ha lasciato nel territorio uno sterminato cumulo di macerie, innanzitutto sociali. La perdita del lavoro ha comportato per molte famiglie la perdita dell'autonomia. La negazione di un orizzonte per i figli, un arretramento nell'accesso ai servizi e alle cure. La pericolosa frantumazione del concetto di coesione sociale e la perdita d'identità di molte persone che si trovano alle prese con ammortizzatori sociali in scadenza, con la disoccupazione o con un precariato. Situazioni che infondono una profonda e inevitabile percezione di solitudine, d'impotenza e di fragilità.

Da qui, scattano meccanismi di autodifesa che sarebbe troppo facile definire egoismo. Nella maggior parte dei casi, è autoconservazione, auto-salvaguardia. Il perfetto contrario di quello che dovrebbe essere il principio della solidarietà e della giustizia sociale - quello sì, tutto da declinare con puntiglio -. Ci si aspetta che tutto questo venga promosso da chi guida la comunità. Al sindaco di Venezia la storia proprio non ha insegnato nulla. La sola l'idea di costituire una cittadella per i poveri suona come il paradigma di un pensiero che non si può liquidare semplicemente come populista. Denuncia in tutta la sua evidenza che per il primo cittadino esistono fette di popolazione considerate perse, per le quali non ha senso progettare, investire, scommettere, perché sono condannate alla povertà e all'emarginazione. Figli di poveri condannati a vivere in luoghi di poveri, scuole per poveri, servizi per poveri. La solidarietà diventa elemosina e la società viene divisa in caste. Il futuro è condizionato dal luogo di nascita e non dal merito individuale, che dovrebbe essere alimentato da un contesto fertile di stimoli e opportunità.

Nel pensiero di una città divisa per censo, vi è innanzitutto la negazione del concetto di giustizia sociale e di democrazia. In questo pensiero c'è tutto quello che noi combattiamo con veemenza, perché nega, leva, rinchiude. Perchè sottrae e umilia soprattutto le vittime della crisi, le lavoratrici e i lavoratori. L'idea di fondo è la stessa, anche quando si discute dei precari del Comune che adesso sono senza lavoro. Ci si aspetta che per questi lavoratori l'amministrazione pubblica, ma vale anche per tutti quelli che in questi anni hanno perso il lavoro, non liquidi la questione legandola alla scadenza del contratto. Ci si aspetta che riconosca - al di là di pietismi ed elemosine -  che la perdita del lavoro è uno dei più urgenti problemi collettivi e non un dramma da far vivere al singolo. Ci si aspetta - perché quello dev'essere il ruolo principale di chi guida la comunità - che l'amministrazione non attenda la fine dei contratti, inquadrando la questione come cosa semplicemente burocratica. Ci si aspetta che diventi essa stessa promotrice di un'azione, questa sì politica, per la ricerca di una soluzione positiva. Non lavorare significa innanzitutto perdere uno dei requisiti fondanti il concetto di cittadinanza. Più dei documenti, più delle patenti.

Troppo difficile. Meglio dividere. Meglio parlare alle pance. Più facile alimentare qualunquismo e semplificazioni che attivare percorsi collettivi inclusivi, di solidarietà, di promozione del diritto di cittadinanza come valore collettivo e crescita individuale. Anche nella vertenza dei precari del Comune prevalgono le scene di disperazione, le umiliazioni personali e collettive. Forse anche la certezza di qualcuno che, finita la foga di questi giorni, la rabbia collettiva diventi disperazione individuale che si consuma dentro le mura domestiche, con lo sfondo di una città illuminata dal Natale. Una città che sembra sempre più un luogo di cartapesta, fatto di sagome che dietro non hanno nulla.

Enrico Piron è segretario generale della Cgil di Venezia